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CAPITOLO 5

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Scuola Apostolica Bertoni. Uno spaccato di vita durante e dopo la guerra.

Capitolo 5

V - Cadellara casa nostra

 

1. Il giorno 14 agosto 1945, a causa di un incidente stradale, moriva il giovane Mino Turco. Il suo nome era Giacomo, ma da tutti era conosciuto e chiamato col nome di Mino.

Per delicatezza non chiesi mai ai genitori come avvenne la tragica disgrazia. Essi pure non amavano parlarne preferendo tenere per sé, chiusa nel loro cuore, tutta la sofferenza. Ultimamente (settembre 2000) il professor Glauco Pretto di Povegliano, il quale da ragazzo conobbe personalmente Mino, mi riferì nei particolari la dinamica del luttuoso avvenimento. Sono stati a lui forniti dal signor Arno Zuccher figlio di uno dei due superstiti. Infatti Mino, nella sua macchina – Fiat Ardea, – non era solo quel giorno ma insieme ai due amici Rino Zuccher di Povegliano (il conducente) e un certo Fadini di Isolalta. I tre si recavano a Bologna per affari commerciali. Procedevano tranquilli sulla statale, quando un camion alleato (un Dodge) condotto da un soldato inglese sbucò all’improvviso da un autoparco militare sito ai margini della strada. Si immerse con prepotenza nella statale e investì con il muso il fianco sinistro del veicolo proprio dove sedeva Mino. (L’Ardea aveva il volante a destra).

L’impatto fu violento. La vettura sfasciata e i tre occupanti furono estratti dai rottami. Bilancio tragico: il militare inglese (che riconobbe poi il suo torto) ne uscì illeso, i due amici di Mino riportarono fratture e contusioni e furono trasportati al Rizzoli di Bologna, il giovane Mino venne estratto morto.

All’annuncio del tragico evento, costernazione degli inconsolabili genitori e compianto di tutto il paese di Povegliano.

Mino aveva 22 anni e doveva frequentare il terzo anno nella facoltà di Legge dell’ateneo bolognese.

I funerali furono celebrati a Povegliano, dove dimorava la famiglia. Ho potuto avere la commemorazione tenuta dall’allora giovane sacerdote d. Luigi Pretto dinnanzi alla bara, nel sagrato della chiesa. (Doc. 1).

La salma venne trasportata e tumulata nel cimitero di Pieve di Colognola ai Colli, nella tomba di famiglia. Smarrimento dei genitori, anche perché Mino era il loro unico figlio.

Qualche tempo prima avevano acquistato una villa in contrada Cadellara, nella parrocchia di Pieve, comune di Colognola ai Colli, chiamata Ca’ Maffei, con l’intenzione che divenisse la dimora del figlio dopo il matrimonio. Egli però – almeno secondo attestazioni degli abitanti del luogo – non era della stessa idea, anzi avrebbe affermato che non sarebbe mai andato ad abitarla.

Noi avemmo notizia del tragico incidente quando eravamo ancora a Boscochiesanuova. Ce ne parlò la signorina Ida Porro, proprietaria della pensione Tinazzi. Essa aveva conosciuto il ragazzo qualche anno prima, ospite per alcuni giorni nella sua pensione durante l’estate. Lo ricordava come ragazzo rispettoso, educato e socievole, religiosamente praticante. Una notizia dolorosa di cronaca e nulla più.

Della famiglia Turco ho soltanto una conoscenza generica. Il papà di Mino, Comm. Guglielmo, proveniva da una famiglia di Caldiero ma originaria di Pieve dove si trovava pure – e si trova attualmente – la tomba di famiglia. Uomo di modesta cultura, diceva di aver frequentato le scuole superiori come convittore nel Collegio Vescovile, annesso all’edificio del seminario di Verona. Quando lo conoscemmo era già uomo maturo. Bonaccione, di molto cuore, ben voluto dai dipendenti. Si stava però ripiegando in sé stesso, abbandonando praticamente ogni attività, ormai senza più alcuno scopo nella vita.

Godeva di una certa agiatezza che si era procurata acquistando e rivendendo fondi rustici e altri beni immobili. Aveva poi preso in affitto e lavorato la campagna dei marchesi Canossa a Grezzano. Infine gli riuscì di acquistare una filanda a Povegliano. Non avendo conoscenze specifiche per condurre lo stabilimento, si serviva dei consigli e dell’aiuto del sig. Pretto, padre di d. Luigi. Strinse pure relazioni di simpatia con la famiglia di lui.

La signora Micaela Steccanella era moglie di Guglielmo Turco e madre di Mino. Nacque a Cazzano di Tramigna dove esiste tuttora la casa paterna, trasformata in Casa di riposo per anziani. Della sua famiglia abbiamo conosciuto un fratello, Emilio, e due sorelle: la maggiore, Luisa sposata ad un ingegnere di Bagnoregio, Fabio Fabi, e Bianca che non si maritò e rimase nell’abitazione di Cazzano.

Micaela frequentò le scuole superiori e passò alcuni anni in un educandato a Verona. Mi sembra presso le Campostrini, ma non ne sono sicuro. Della vita che condusse da ragazza e poi da sposa fino all’incontro con gli Stimmatini, non conosco nulla.

Era intelligente, volitiva, schietta, al limite della convenienza, poco cerimoniosa e nemica dei complimenti. Aveva un forte ascendente sul marito e sulle proprie sorelle e sapeva tener fronte con successo agli interlocutori: intermediari, avvocati, uomini d’affari. Quando decideva una cosa nessuno la smuoveva. Il suo comportamento era corretto, riservato, non dava alcuna confidenza. Padre Michele Scalet la definì: "Una dama settecentesca, di stile rococò".

Nella vita era parsimoniosa. Ricordo le poche volte che insieme ad altri fui ospite a pranzo, pesava personalmente la quantità di pasta o di riso per il primo piatto e le porzioni per il secondo. Verso i dipendenti e mezzadri era precisa, ma non eccedeva in generosità.

Carezzava il sogno di portare la famiglia al primo posto tra la numerosa parentela dei Turco sia per la ricchezza che per il prestigio. Aveva allontanato il marito dal "clan" dei Turco spingendolo verso gli affari, l’agricoltura e la piccola industria. Gli Steccanella non erano nobili, ma solo possidenti benestanti. La signora Micaela riuscì ad ottenere per il marito il titolo di "commendatore". Pure per il figlio Mino coltivava nell’animo un avvenire di spicco. Mi confidò il parroco di Pieve che la signora decise di avere un figlio solo proprio perché potesse meglio emergere e affermarsi nella società. Anche l’acquisto della villa di Cadellara effettuata nel 1941 (ex proprietà dei conti Maffei) rientrava in questo progetto, come pure la preparazione del figlio ad una professione a livello universitario. Ma Dio, nel suo mistero, pensava diversamente: "Le mie vie non sono le vostre vie".

L’improvvisa, tragica morte del figlio, oltre che creare un profondo trauma nell’animo dei genitori, segnava il crollo delle speranze poste nel suo avvenire. Ormai la vita sembrava non avere alcuno scopo. La prima volta che incontrammo i signori Turco, a sei mesi della scomparsa del figlio, il papà sapeva nascondere i sentimenti dietro un comportamento serio ma disinvolto, mentre la mamma indugiava a guardare i giovani chierici e a parlare con essi. Fissando il loro volto gioviale esclamava: "Guarda che faccia da cuor contento!". Quando si tentava di dirle qualche parola di conforto, rispondeva: "Beati voi che avete la fede!". Quest’atteggiamento durò parecchio tempo. Poi a poco a poco il dolore s’attenuò, ma rimase nel suo volto un velo di tristezza per tutta la vita.

Dopo la morte del figlio, i genitori si posero l’interrogativo: che fare della villa di Cadellara acquistata proprio per Mino? Non era adatta per loro, perché troppo vasta e situata in un luogo solitario. Rivenderla? Pareva di far torto al figlio. Prevalse quindi, nella loro riflessione il proposito di trasformare la casa in un ricordo imperituro del loro adorato figlio. Pensarono di costruire accanto alla villa una cappella, di trasferirvi le spoglie mortali del figlio e di predisporre due loculi per loro, così da ricomporre la famiglia nella pace del sepolcro. Inoltre di affidare il complesso ad un ente religioso che perpetuasse la loro memoria con un’opera di culto e di beneficenza.

A quale ente, in concreto affidare quest’impegno? Qui confesso di non essere in grado di fornire una risposta personale dei fatti. Nei primi mesi dopo la morte di Mino io dimoravo, con la Scuola Apostolica, a Galbiate dove arrivavano solo voci vaghe e incomplete sulla vicenda. In seguito non chiesi e non ebbi mai alcuna precisazione da parte dei coniugi Turco. Conosco soltanto quanto mi riferirono il parroco di Pieve, p. Marchesini e la cerchia dell’AMB, che avevano frequenti contatti con la parrocchia di Povegliano. I signori Turco informarono certamente i due parroci delle loro intenzioni, sia per la familiarità che avevano con loro sia perché erano le persone più indicate per questo genere di problemi.

Fatto sta che i due parroci furono concordi nel consigliare ai Turco di rivolgersi all’istituto degli Stimmatini, i più colpiti dalla guerra, tanto da essere costretti ad emigrare lontano da Verona per sopravvivere. Nel libro dei verbali del Consiglio Provinciale si trova la preziosa affermazione che tutto ciò avvenne "per interessamento ed esclusiva indicazione del nostro amico don Luigi Bonfante parroco di Povegliano". (Vol. 1°, 12 ottobre 1945, p 138).

D. Luigi Bonfante (1866-1957) nominato in seguito monsignore, prelato domestico di Sua Santità Pio XII, fu per 55 anni parroco di Povegliano, stimato, amato e poi compianto dai suoi fedeli.

2. Dopo queste divagazioni, eccoci di nuovo a Cadellara, nuova dimora dei professi di teologia. Il giornale veronese dell’epoca Verona Libera, - pubblicazione del Comitato di Liberazione Nazionale (CNL),  espressione di tutti i partiti compatti nella lotta contro l’oppressione nazista, - riportò la notizia che a Cadellara si era insediato: "lo studentato enologico degli Stimmatini". Non c’è dato sapere se fu un "refuso" tipografico oppure un’intenzionale "cattiveria" verso i signori Turco e gli Stimmatini.

Il quaderno della cronaca della comunità di Cadellara, che conteneva per esteso le notizie di quei primi giorni, andò smarrito e la cronaca pubblicata sul Bertoniano, (1946, p. 103) stesa dal chierico Guido Hoffer, è briosa, ma scarna.

Lo studentato teologico comprendeva 15 studenti e cinque sacerdoti. Si unì ben presto un altro studente, Ettore Di Giusto proveniente da Udine, diplomato maestro. Stava apprendendo i primi elementi della vita religiosa e frequentava un corso accelerato di propedeutica alla teologia. Vi erano pure due aspiranti fratelli, Vincenzo Bellavita e Arturo Maestrello, assai preziosi per i servizi domestici e nell’aiuto all’economo. Dopo qualche anno lasciarono l’istituto. Per il servizio di cucina e di guardaroba avevamo, sistemate alla meglio, cinque suore della s. Famiglia di Castelletto.

La villa non era tutta a nostra disposizione perché in parte occupata da "sfollati", in attesa di poter ritornare alle proprie abitazioni.

I chierici si adattarono a dormire due o tre per stanza e così pure p. Fausto Longo e p. Luigi Dusi. Leggo dal cronista: "Di tanto in tanto qualche carissimo confratello viene a vedere il dormitorio comune dei padri e l’ambiente". (Bert. 1946, p. 103). Usavamo come aula di scuola, studio e ricreazione una sala "polivalente" al pianterreno, l’unica riscaldata. Da refettorio serviva un’altra stanza attigua alla cucina e comunicante con quella attraverso la grata. La cappella, predisposta con amore da p. Ottavio Vallarsa, era ricavata nel salone centrale al primo piano, decorato con affreschi e coronato da due logge. Devota ed accogliente. L’altare e le suppellettili erano stati racimolati qua e là dal buon padre Ottavio.

Nella parte rustica della "corte" abitava la famiglia del mezzadro, certo Aldegheri Alessandro, chiamato comunemente "Pipeta". Coltivava l’appezzamento di terreno di 18 campi veronesi, sito a nord della villa e facente parte d’essa. Completa la rassegna una famiglia di sfollati, senzatetto, provenienti dalla Toscana i quali occupavano parte del fabbricato rustico.

Dunque il giorno dopo l’arrivo, 12 gennaio, tutta la comunità, qualche mezzadro e alcuni fedeli della zona stavano in attesa dei coniugi Turco e del p. Provinciale che dovevano venire per incontrare gli studenti e assistere alla celebrazione della s. Messa per Mino. Attendemmo a lungo ma nessuno arrivò.

Ricordo la nostra delusione, ma non potemmo metterci in contatto con il p. Provinciale perché il posto di telefono più vicino si trovava a Strà di Caldiero. Simile attesa anche il giorno seguente. Allora qualcuno andò in bicicletta fino al posto telefonico. Il Provinciale rispose che la signora era influenzata e che la celebrazione della Messa era rimandata in data da destinare.

Il fatto contribuì a rendere ancora più pesante il clima di quei primi giorni. Per una settimana la comunità fu priva di latte e faceva colazione con pane e "bondola" e una tazza di così detto "caffè." L’illuminazione, a causa d’insufficiente energia elettrica, dava alla casa un aspetto catacombale. Per poter studiare la sera usavamo le candele e soltanto più tardi potemmo procurarci delle lucerne ad acetilene. P. Ottavio Vallarsa s’ingegnava come poteva. Andò fino ad Affi per ricuperare una vecchia stufa. Fratel Carlo Valenti (che era economo della casa matrice di Galbiate) si premurò di acquistare della legna per la cucina e la stufa: ma… secondo i suoi lumi. Ci fece arrivare un camion e rimorchio di radici di "pezzo" (conifere), radici contorte e nocchierute. Così nei momenti liberi gli studenti erano ingaggiati a tagliare e rompere quelle radici, con sega, ascia e cunei di ferro. Specialista in quel lavoro fu Nereo Cengiarotti il quale si guadagnò il titolo di "s-ciappa-zocche", che p. Fausto Longo aveva tradotto con "rompi-ceppi". Malcontento quindi degli studenti nei confronti di fratel Carlo, espresso in forma scherzosa. Egli si difendeva con vivacità: "Cosa volete di più; vi ho portato due carichi di "zocche" che vi serviranno per tutto l’inverno". In effetti riuscirono a riscaldare due volte i volonterosi chierici: mentre le spaccavano e quando le ponevano a bruciare nella stufa.

Anche la mensa lasciava un po’ a desiderare. In verità ciò era dovuto sì alla situazione generale dell’Italia nell’immediato dopo guerra, ma molto più alla poca fantasia delle suore di cucina e all’imperizia di p. Francesco Pisetta. Il quale, dotato per la vita spirituale, era totalmente negato per l’economia quotidiana. Ricordo che un giorno si presentò un rappresentante il quale gli offrì come occasione provvidenziale un barile di pesciolini marinati. Affare concluso sull’istante. Tutte le sere poi capitavano a cena quei poveri pesciolini. L’odore acre, il sapore aspro che bruciava lo stomaco. Dopo poco tempo nessuno riusciva più a mangiarli.

La vita della comunità di Cadellara però non era tutta qui. Cominciammo a muoverci e a conoscere il nuovo ambiente. Tra le prime simpatiche figure che incontrammo fu quella del sig. Carlo Golo. Abitava là dove la strada volge a destra verso il progno. D’età matura ma arzillo, innamorato dei suoi campi, intratteneva i chierici manifestando la propria soddisfazione per avere una comunità di preti vicino a casa sua. Un chierico uscì a dire: "Anche noi siamo contenti, ma qui abbiamo trovato freddo e tanta nebbia". Egli prontamente: "Non preoccupatevi, che se adesso è freddo quest’estate verrà il caldo". La frase storica fu subito colta al volo e immortalata in una composizione poetica di Giovanni Reverberi, poi cantata sull’aria di un inno goliardico. Gli studenti, infatti, durante la ricreazione del dopo cena, chiusi nell’aula-studio-ricreazione, sprigionavano la loro fantasia e il loro brio. Raccontavano le peripezie dei momenti tragici, irreali, alle volte grotteschi vissuti durante la guerra, a Sezano, Bosco, Galbiate e ora a Cadellara. Chi ricordava una situazione, chi una persona, chi un contrattempo, chi un pericolo scampato… e la storia si allungava, colorata di leggenda. Era un modo per scaricare le tensioni accumulate e vedere in una luce più serena e distaccata il recente passato.

Nacquero così tre composizioni: "Il patrono dei traslochi", più classica e narrativa, cantata, come si è detto, sull’aria di un inno goliardico. (Doc. 2). Una seconda, senza titolo, che scolpiva piccoli fatti di cronaca in chiave umoristica, sprizzati dalla fantasia e dalla verve di Luigi Miori. Una terza ispirata dal racconto dei fatti mirabolanti (mai avvenuti!) del soldato-combattente Ettore Di Giusto che nella fantasia e nei versi del compositore era divenuto il "generale Gariboldi".

3. Passati i primi momenti, le cose pian piano tornarono alla normalità. Il cronista si esprime così: "Si riprende metodicamente la scuola". Il corso teologico era unico per tutti gli studenti, anche se di classi diverse. Per alcuni (sei) era l’ultimo anno di teologia. Il fatto di trovarsi insieme da soli e alle medesime lezioni di teologia aiutava forse ad approfondire la propria identità e favoriva una maggiore comunione. Del resto il passaggio da Galbiate a Cadellara, anche se sofferto, venne accettato con senso di responsabilità e con l’impegno di superare i limiti e le carenze esistenti. Inoltre anche a Cadellara gli stimmatini, sacerdoti e studenti, incontrarono la simpatia e l’aiuto della buona popolazione e dei sacerdoti della zona. Da parte nostra eravamo disponibili alle loro richieste di ministero, specie del parroco di Pieve d. Gaetano Aldegheri. P. Ottavio Vallarsa, seguendo le ragioni del suo gran cuore, eccedeva talora nel prendere impegni per sé ed anche per i padri addetti alla scuola. Alle mie benevoli rimostranze rispondeva: "Bisogna aiutarli questi poveri parroci!".

I chierici si offrivano volentieri per il catechismo ai fanciulli in diverse parrocchie e nell’assistenza ai giovani. I cantori s’inserirono nella corale di Pieve, altri rendevano più solenni e dignitose le funzioni liturgiche, con grande soddisfazione e riconoscenza da parte dei fedeli. La parrocchia di Pieve era una comunità esemplare per fede, pietà e pratica religiosa. Secondo l’espressione di p. Pietro Marchesini "durante le funzioni religiose rimanevano a casa solo le galline".

Dunque, dopo l’attacco d’influenza che costrinse i signori Turco a rinviare la loro venuta fra noi, avemmo finalmente modo d’incontrarci e conoscerci personalmente. Vennero con il p. Provinciale il quale celebrò la Messa per Mino, disse parole di circostanza e poi presentò i coniugi alla comunità. Espressero la propria soddisfazione per la nostra presenza, vollero conoscere un po’ tutti i chierici interessandosi dei loro studi e di tante altre piccole cose. Tutto con naturalezza e semplicità. Manifestarono il loro proposito di costruire la cappella dove sarebbe stata collocata la salma del figlio. Rimanemmo sinceramente soddisfatti di quel primo cordiale incontro.

La celebrazione eucaristica, a cui i signori Turco saranno sempre presenti, si ripeterà poi il giorno 14 di ogni mese, data che ricordava la morte del figlio, avvenuta il 14 agosto dell’anno antecedente. Il 21 febbraio invece – giorno della nascita di Mino – si tenne una cerimonia più solenne. Erano presenti alcuni confratelli delle Stimate, il parroco di Pieve e molta gente del luogo. Dopo la s. Messa si tenne un incontro nel salone d’entrata dove fu esposto un quadro con la fotografia di Mino. Dopo parole di circostanza dette da me, e poi dal parroco di Pieve, il chierico Giuseppe Guglielmoni, a nome di tutti i suoi compagni, lesse un elevato indirizzo alla memoria del giovane figlio dei Turco. Mino, disse tra l’altro, Dio lo colse prematuramente come un fiore, ma i suoi ideali di bontà e fraternità non sono andati perduti. I giovani che sono e saranno a Cadellara, luogo per lui predisposto, li hanno fatti propri e li porteranno un giorno, moltiplicati e dilatati per le vie del mondo. La sua memoria, unita a quella degli adorati genitori, sarebbe passata in benedizione presso tanta gente, lungo il corso degli anni.

4. I giorni trascorrevano scanditi dall’impegno della preghiera, della scuola e dello studio. Qualche ricorrenza interrompeva il ritmo quotidiano. "La festa dei ss. Sposi ci regalò un soffice strato di neve. La trascorriamo alle Stimate in cordiale fraternità con i confratelli. La mattina seguente l’arcivescovo di Trento mons. Carlo De Ferrari celebra tra noi, applaudito e benvoluto". (Bert. 1946, pag. 103). Il giorno 11 febbraio i chierici si portano alle Stimate per il servizio liturgico nella festa della Madonna di Lourdes, la cui statua era stata da poco collocata in alto sopra l’altare di s. Caterina. Il 16 marzo 6 chierici vengono ordinati diaconi da mons. Girolamo Cardinale, vescovo di Verona. Un ulteriore passo avanti per gli studenti più anziani e stimolo per gli altri.

Due avvenimenti interni all’Istituto polarizzarono l’attenzione e le attese della comunità in quei mesi: la celebrazione del I° Capitolo della Provincia S. Cuore, Verona 4/9 febbraio, e quella del Capitolo Generale, Roma 26 maggio - 5 giugno 1946.

Alle alte assise del Capitolo Provinciale ero presente anch’io come delegato della circoscrizione della Scuola Apostolica. Ecco che cosa scrive in proposito il cronista delle Stimate. "Si dice che tutto andò bene, che vi fu gran cordialità, che tutti si misero con impegno, che ogni argomento venne trattato esaurientemente, con sincerità e obiettività; che anche i giovani (ed erano la maggioranza) seppero far sentire la loro parola, affrontando le questioni delicate con piena consapevolezza. Questo fa sperare in bene per l’avvenire della Provincia e della Congregazione". (Bert. 1946, pag. 9). E di "questioni delicate" ce n’erano tante per la Provincia uscita appena da una guerra che aveva lasciato dietro a sé tante rovine materiali e morali.

Della nuova sede di Cadellara si parlò poco, anche perché le trattative con i signori Turco erano ancora in corso, anzi stagnanti. Il problema della Scuola Apostolica, ricostruzione e nuove vocazioni, veniva a cozzare con la mancanza di mezzi. Ricordo una scena patetica di p. Gardumi verificatasi durante il Capitolo. Parlando in assemblea della situazione economica, uscì nell’espressione: "Quando gli economi di Galbiate, Affi e Cadellara mi vengono a chiedere dei soldi per gli studenti e io batto alla porta dell’economo provinciale p. Domenico Rossi, mi sento sempre rispondere «Soldi non ce ne sono, soldi non ce ne sono», questa è la tragedia!". E scoppiò in pianto.

Dal Capitolo Generale uscì eletto superiore dell’Istituto p. Dionigi Martinis, che sapevamo affezionato alla Scuola Apostolica per essere stato per parecchi anni insegnante e formatore dei professi prima di andare in Brasile. Il giorno 15 giugno, dieci giorni dopo la sua elezione, egli fece visita alla comunità di Cadellara. Nota il cronista: "Abbiamo tra noi la graditissima visita del Rev.mo Sup. Gen. don Martinis, di padre Armour, di p. Fernandes (fratello del nostro padre Francesco Pisetta) e di padre Nones che ci lasciarono con ottima impressione". (Bert. 1946, pag. 104).

Intanto si avvicinava velocemente la fine dell’anno scolastico. Breve pausa il 12 giugno con un’uscita fino a Verona per pregare sulla tomba del Fondatore. Il giorno 24 giugno p. Ottavio Vallarsa, sempre disponibile e sereno, partì alla volta di Farinia, località vicino a Battipaglia, e rimarrà poi in quelle promettenti terre del Mezzogiorno fino alla sua morte (1.2.1998), lasciando un ricordo indelebile presso i confratelli e la gente.

Si avvicinava la data tanto attesa, quella dell’ordinazione sacerdotale di sei studenti teologi: Cassini Primo, Chistè, Crescini, Miori, Reverberi, Vignandel. Eravamo alla fine di giugno e il caldo predetto dal simpatico contadino non mancò all’appuntamento. Tutta la comunità si raccolse in spirituali esercizi predicati da p. Targa, dei Figli del s. Cuore (Padri Venturini) con molta semplicità ed unzione. "Pare cominci davvero il caldo, oltre che vero fervore, ed è granitica la buona volontà, anche se il corpo sfinito dagli esami è debole". (Bert. 1946, pag. 104). Ricordo che p. Targa, giovane sacerdote, buono e maturo di spirito, ebbe in quei giorni diverse emorragie dal naso. Egli continuò imperterrito a dispensare la parola di Dio in forma piana e convincente…

Il giorno 7 luglio ci recammo tutti in duomo per l’ordinazione. Vescovo consacrante fu mons. Girolamo Cardinale, ordinandi: i diaconi diocesa-ni, i nostri sei ed altri religiosi nonché alcuni suddiaconi e parecchi chierici che ricevevano gli ordini minori. Naturalmente digiuni dalla mezzanotte senza toccare cibo o bevanda, neppure acqua.

Oltre naturalmente alla gratitudine profonda verso il Signore per il dono dei nuovi sacerdoti consacrati, ricordo due particolari di quell’ordinazione. Il primo è la lunghezza della cerimonia e dell’omelia del Vescovo: dalle 8.00 del mattino fin oltre mezzogiorno. Il secondo: ad un certo momento mi accorsi che Reverberi, estratto il fazzoletto e asciugandosi il sudore, si aggrappava al banco e stava per svenire. Mi avvicinai, lo sostenni, presi dalla tasca una boccetta di lavanda, che prudentemente avevo portato con me, e gli feci aspirare il profumo. Si riprese prontamente e poté continuare la cerimonia senza inconvenienti.

Nel ritorno a Cadellara trovammo una simpatica sorpresa. In mattinata gli abitanti di Pieve in tutta fretta e segretezza avevano eretto una diecina di archi a cavaliere della via XXIV Maggio, fino all’entrata della villa. Erano archi "quadrati" costruiti con pali e ornati con ramoscelli, frasche e qualche fiore. Cosa semplice, campagnola, ma segno di tanta fede ed anche di tanto affetto. Rimanemmo stupiti e commossi di quella corale testimonianza. Ormai gli Stimmatini erano entrati nel cuore di quella buona gente!

5. Terminati i momenti di festa e partiti i neo ordinati per celebrare la Prima Messa nelle loro parrocchie, i pochi professi e padri rimasti passarono nella casa di Affi per le vacanze estive. Le suore rientrarono nel loro istituto, perché… disoccupate, e la villa fu chiusa. Così avemmo tempo e possibilità di pensare al presente e al futuro della nuova sede di Cadellara.

Il 15 luglio il Consiglio Generale nominò il nuovo governo della Provincia del s. Cuore: p. Giovanni Cervini, Provinciale, p. Michele Madussi, Vicario, e come consiglieri p. Michelangelo Zanetti, p. Francesco Pisetta, p. Giuseppe Cappellina. Il 18 luglio ci fece la prima visita il nuovo Provinciale. Fu certo una visita di saluto e di cortesia, ma anche occasione per costatare le necessità e i problemi dei chierici, nonché per rendersi conto della situazione giuridica esistente tra noi e i "donatori" i coniugi Turco.

Era un problema ancora aperto che p. Cervini, da buon giurista, aveva subito colto e intendeva immediatamente affrontare. La situazione era la seguente: i signori Turco non avevano ancora sottoscritto alcun atto giuridico per trasferire la loro proprietà agli Stimmatini. Noi eravamo partiti da Galbiate e dimoravamo nella villa di Cadellara soltanto sulla loro parola. Parola certamente di persone serie e oneste, ma sempre parola.

Perché l’Amministrazione precedente non si era premurata di richiedere garanzie giuridiche? Non fu certo per inavvertenza o noncuranza, ma per un motivo importante, anzi sostanziale. Consisteva in ciò: i signori Turco volevano che la villa di Cadellara fosse esclusivamente e per sempre sede dello studentato teologico degli Stimmatini.

Uno dei primi atti del nuovo Provinciale fu quello di appurare le vere intenzioni dei coniugi Turco in merito, poiché non esisteva nulla di scritto. Diresse loro una lettera con la quale richiedeva cortesemente di mettere per iscritto le loro intenzioni allo scopo di poterle inserire nell’eventuale atto di donazione. Fu dato a me l’incarico di consegnare personalmente la lettera ai coniugi, come persona adatta perché da loro conosciuto e superiore dei chierici residenti a Cadellara.

Quando lessero la lettera esclamarono: "Finalmente! Tante volte avevamo detto a p. Gardumi di passare all’atto di donazione, ma ci rispondeva sempre: non preoccupatevi, c’è tempo, c’è tempo!".

La risposta scritta non si fece attendere. Essi riconfermavano la volontà di donare la villa di Cadellara ai padri Stimmatini, alle condizioni che l’opera fosse intitolata a Mino Turco e che nella casa dimorassero per sempre gli studenti teologi. Chiedevano inoltre la celebrazione di un determinato numero di ss. Messe. Confermavano la volontà di erigere una cappella che accogliesse la salma del figlio e, nel futuro, anche quelle dei donatori

Il Consiglio Provinciale considerò accettabili le proposte avanzate, ad eccezione di quella di tenere a Cadellara sempre e soltanto lo studentato teologico. Qualora i donatori avessero insistito su questa condizione gli Stimmatini sarebbero costretti, con rincrescimento, a non accettare la loro donazione.

La risposta del Consiglio, comunicata per iscritto, venne consegnata ai coniugi Turco (che dimoravano a Povegliano) da p. Michele Madussi. Egli era Vicario Provinciale, uomo navigato e capace di convincere gli interlocutori.

I coniugi Turco invece, specialmente la signora Micaela, accolsero la comunicazione con disappunto. Pensarono che gli Stimmatini non apprezzassero abbastanza la loro offerta e avessero poca considerazione per la memoria del figlio defunto e di loro stessi.

P. Madussi cercava di presentare loro altri modi di soluzione che l’Istituto religioso offriva: Cadellara avrebbe potuto accogliere il noviziato, oppure gli aspiranti delle Medie. Avrebbe potuto diventare una scuola, aperta pure ai ragazzi della zona; o centro di formazione per i giovani dell’intera vallata, ecc. Essi non lo seguivano in questi discorsi. Si mostrarono poi contrari a qualsiasi opera che accogliesse ragazzi o giovani, perché – dicevano – avrebbero disturbato la pace del figlio Mino. Del resto questa era stata la loro chiara intenzione fin da principio, e non venne loro opposta alcuna difficoltà.

Terminati i discorsi e le schermaglie, diedero a p. Madussi una risposta evasiva: "Ci dispiace molto, non ce l’aspettavamo, ci penseremo su".

6. Tutta l’estate passò nell’incertezza. I signori Turco accetteranno il nostro punto di vista? Come e dove sistemare eventualmente i chierici?

Intanto gli studenti teologi rimasti dopo la partenza dei neo sacerdoti salirono ad Affi per un meritato riposo. Il cronista di quella comunità così registra il loro arrivo: "19 luglio: dopo un periodo di faticoso ed estenuante lavoro scolastico a Cadellara, la comunità viene ad Affi, per un periodo di riposo. Fra giorni si aggiungeranno i padri studenti di Roma". (Bert. 1946, pag. 108). Quest’ultimi erano: p. Ignazio Bonetti, p. Nello Dalle Vedove, p. Giovanni Ceresatto, p. Sergio Faè. Era presente pure p. Fantozzi, arrivato da Roma per studiare e preparare la ricostruzione del santuario della Madonna di Lourdes. La casa di Affi, attorniata da un vasto terreno boschivo, era una creatura di p. Fantozzi, acquistata nel 1932 dietro suo interessamento. Quell’estate fu decisamente torrida ed afosa.

Arrivare ad Affi da Verona non era cosa agevole. Macchine non ce n’erano. Un trenino a vapore partiva dalla "stazione" di Porta s. Giorgio, arrivava fino ad Affi e proseguiva per due direttrici: Cavaion-Garda e Costermano-Caprino. Ma giunto a Sega era costretto ad arrestarsi perché il ponte sopra l’Adige era stato fatto saltare dai nazisti in ritirata. Chi arrivava da Verona doveva scendere, armi e bagagli, in prossimità della riva sinistra del fiume, imbarcarsi su una specie di zattera, passare alla riva opposta dove era pronto un altro "convoglio" che portava a destinazione. Dalla stazione di Affi poi si saliva per un sentiero fino alla nostra casa, sempre con i bagagli in spalla. Non era proprio un viaggio comodo, veloce e… a buon prezzo, come i pullman d’oggi!

Durante quell’estate d’attesa non si stava con le mani in mano. C’era l’assillo e la volontà di ricercare e accogliere nuovi aspiranti per colmare al più presto i vuoti provocati dalla guerra. Particolare merito ebbero p. Pietro Marchesini e la sua équipe missionaria nel Veronese, p. Fausto Longo nel Trentino, p. Ferruccio Tribos nel Friuli. Ascoltiamo la voce velata di gioia e commozione del cronista di Galbiate: "Venerdì 11 ottobre, albo signanda lapillo. Dopo la forzata interruzione di quattro anni, a causa della guerra, alle 19 circa, preannunciati da voci argentine di evviva e di canti, giungono in camion 31 nuovi aspiranti. Giungono da Sezano accompagnati da p. Fausto Longo e Giovanni Reverberi che li hanno paternamente assistiti in questo mese di preparazione. La casa si rianima come d’incanto. Tolti due romani, sono tutti veneti, con forte prevalenza veronese. In seguito se ne aggiungeranno altri fino a raggiungere il numero di 36. Da una prima rapida statistica ci risulta che quasi tutte queste tenere vocazioni sono state raccolte dai nostri Padri nei giri di predicazione e nelle ferie estive. (Bert. 1947, pag. 195).

Passarono i mesi di agosto e settembre e i signori Turco – con i quali non avemmo altri contatti – continuavano a "pensarci su"; l’attesa si faceva lunga.

Essi certamente ebbero contatti con qualche altro Istituto e si consigliarono con i parroci di Pieve e Povegliano con i quali avevano più confidenza. Ricordo ciò che mi riferì il parroco di Pieve don Gaetano Aldegheri, qualche tempo dopo. Egli cercò di persuadere i signori Turco dell’impossibilità oggettiva per gli Stimmatini (come per qualunque altro istituto) d’accettare la condizione che imponeva di conservare "in eterno"a Cadellara la sede dei loro studenti teologi. Li dissuase inoltre di erigere la cappella funebre accanto alla villa, perché "il luogo proprio per i defunti è il cimitero". Ed era pure il luogo ideale perché Mino fosse ricordato da parte dei fedeli che vanno sovente a pregare sulla tomba dei loro cari.

Don Gaetano Aldegheri (1880-1959 parroco di Pieve per 47 anni) aveva sincera stima per gli Stimmatini e la dimostrò poi sempre per tutta la vita. Ne volle lasciare memoria anche nel suo testamento spirituale scritto per i suoi "figlioli dilettissimi" in data 1° maggio 1956: «Ci tenevo a tener sempre viva la fiaccola della fede, con la divozione alla Madonna e con la frequenza ai ss. Sacramenti; ...a favorirla abbiamo avuto la fortuna dei reverendi Padri Stimatini, che, anche a base di premurosi sacrifici, hanno generosamente prestato la loro opera caritatevole».

A settembre inoltrato, mi pare, i signori Turco fecero sapere di essere disposti ad accogliere il punto di vista degli Stimmatini e si dichiararono pronti a eseguire quanto prima l’atto notarile di donazione. P. Cervini ne parlò col notaio Antonio Cicogna il quale esaminò i desideri e le condizioni che i donanti ponevano e gli oneri che, di conseguenza, ne sarebbero derivati agli Stimmatini. Rimase perplesso. Il punto "incriminato" era la perpetuità dell’opera che gli Stimmatini sarebbero stati obbligati a tenere e gestire nella villa di Cadellara. Il notaio, di coscienza esatta e rigorosa, riteneva che tale onerosissima condizione rappresentava per gli Stimmatini un prezzo di molto superiore al valore dell’immobile "che volevan donare". Nella fattispecie quindi non si era di fronte ad un atto di "liberalità" come richiede la natura stessa di donazione e per conseguenza l’atto era giuridicamente nullo.

P. Cervini invece riteneva che tale clausola, essendo moralmente impossibile da osservare, si doveva considerare praticamente nulla, cioè tamquam non apposita. Perciò invalida sed non invalidans la donazione. Il notaio riconobbe la fondatezza giuridica di tale ragionamento, la fece propria e procedette a stendere lo strumento notarile.

Il rogito porta la data del 7 ottobre 1946. Figurano presenti da parte degli Stimmatini p. Michele Madussi il quale aveva condotto le trattative, p. Domenico Rossi, in quel tempo procuratore del rappresentante legale della Scuola Apostolica che era p. Emilio Recchia. Furono recepite le due condizioni volute dai donatori: la casa di Cadellara sarà intestata al nome del compianto figlio Mino Turco, e sarà adibita in perpetuo per un’opera degli Stimmatini. Naturalmente interpretando l’espressione "in perpetuo" secondo la mente espressa da p. Cervini. (Doc. 3).

Un senso di sollievo da parte di tutti! Ora potevamo tornare con più serenità alla "nostra" casa di Cadellara. Il cronista della comunità così si esprime: "La villa di Cadellara di Colognola ai Colli, dopo penose attese ed incertezze, con donazione effettuata a base di legge il 7 ottobre 1946 dai proprietari sigg. Guglielmo e Micaela Turco, passa definitivamente all’Istituto." (Bert. 1947, pag. 193).

7. In data 12 ottobre 1946 il medesimo cronista nota: "I chierici scendono da Affi per fare ritorno a Cadellara, riconoscenti verso i superiori i quali hanno procurato loro una buona vacanza estiva. Alle Stimate trovano ad aspettarli i professi di filosofia appena venuti da Galbiate. Questi ultimi erano stati accompagnati a Verona da p. Longo Fausto il quale aveva condotto a Galbiate i nuovi aspiranti, dopo aver passato tra essi un buon mese a Sezano. Così i chierici, finalmente riuniti, s’avviano a Cadellara accompagnati dal direttore p. Giuseppe Cappellina". (Bert. 1947, pag. 193-94). E subito dopo, il 14 ottobre: "Si celebra una solenne ufficiatura di suffragio per Mino Turco a ricordo del quale fu donata la villa. Vi partecipano, oltre a molte persone di Cadellara e Pieve, i signori Turco, i quali esprimono il desiderio d’essere presenti alla s. Messa che si celebra il 14 di ogni mese, secondo la convenzione". (Bert., ibid.).

I donatori non fecero mai capire nulla del travaglio e delle incertezze passate e si dimostrarono cordiali e sereni. Le relazioni con gli Stimmatini, impostate ora nella chiarezza e nella sicurezza, divennero di mese in mese sempre più strette.

Intanto la comunità di Cadellara si arricchiva di nuovi membri e di nuove forze. Oltre i chierici di teologia, erano presenti i professi del corso di filosofia. Arrivarono poi, freschi freschi da Roma con i rispettivi titoli accademici, p. Sergio Faè e p. Ignazio Bonetti. P. Francesco Pisetta invece passava alle Stimate come consigliere e segretario provinciale. Prendeva il suo posto di padre spirituale d. Alessandro Grigolli, il quale, arrivato dal Brasile per il Capitolo Generale, aveva chiesto di rimanere in Italia a motivo della sua consistente età (67 anni!). Pensava di non essere più adatto per il ministero apostolico in quella terra, ministero che esigeva persone efficienti. Fu un eccesso di modestia da parte sua, ma fu decisione provvidenziale per noi, data l’esperienza religiosa ed apostolica e le rare doti di predicatore e d’artista di p. Grigolli.

Non fu possibile riavere le Piccole Suore della s. Famiglia. Per la cucina rimediò (anche se proprio non del tutto!) fratel Guido Brunelli, egli pure reduce dall’avventura brasiliana, coadiuvato da fratel Mario Rigon. Per il guardaroba si prestò la signora Elena Stoppele Mantovani, madre del chierico Luigi Mantovani, la quale vi rimase poi per molti anni divenendo quasi un simbolo per coloro che passarono il periodo di formazione in quella casa.

L’anno scolastico passò nella normalità senza scosse né avventure o disavventure. Vorrei ricordare di quell’anno due avvenimenti che mi sono maggiormente rimasti nella memoria.

Il primo accadde a p. Sergio Faè. Egli, oltre che insegnante, copriva l’incarico d’economo della comunità. Un giorno comprò da un negoziante di Badia Calavena una partita di legna, tutta bella, in ceppi, pronta per alimentare le stufe o la cucina diversa da quella "regalata" l’anno antecedente da fratel Carlo Valenti! Venne accatastata lungo la parte della stalla e coperta con lamiere.

Dopo qualche giorno si presentarono due carabinieri i quali, spiacenti, dissero d’aver l’ordine di porre sotto sequestro la legna, perché risultava rubata. P. Sergio a spiegare che egli aveva acquistato la merce da un commerciante e di averne pagato regolarmente il prezzo. Essi risposero che non vi era alcun reato, ma che la legna doveva rimanere sotto sequestro, in attesa di una definizione da parte del giudice. E posero i sigilli.

Il giorno seguente p. Sergio salì a Badia per chiarire la faccenda col negoziante.Venne a sapere che gli abitanti di Giazza, trovandosi in necessità, erano entrati nei boschi comunali, avevano tagliato parecchi alberi e ricavata della legna, legna che poi avevano venduto serenamente a dei commercianti. Tutto ciò senz’alcuna autorizzazione da parte del Comune. Il Sindaco aveva denunciato la cosa all’autorità giudiziaria, la quale ordinò il sequestro cautelativo della legna tagliata, sia che si trovasse presso i commercianti, come presso eventuali compratori. Ogni decisione spettava ora al pretore, il quale stava facendo indagini sugli "incriminati" boscaioli.

Il pretore non fece attendere molto la propria decisione. Costatò che i paesani di Giazza avevano compiuto quell’azione in stato di necessità e perciò dichiarò che non avevano compiuto alcun reato contro la legge. I cittadini dell’illustre borgo furono completamente assolti e il Comune non ottenne alcun risarcimento per i danni subiti.

Un grande sollievo, specie per p. Sergio, alle sue prime armi nell’ufficio d’economo.

Questa la situazione in Italia, in un piccolo paese montano, ad un anno dal termine della guerra!

Il secondo riguarda la solenne commemorazione del figlio dei donatori, sigg. Turco.

Il 21 febbraio 1947 ricorreva l’anniversario della nascita di Mino. La ricorrenza fu ricordata con una solenne celebrazione eucaristica e lo scoprimento di una lapide sulla parete destra del salone d’ingresso. L’epigrafe venne dettata da p. Grigolli il quale inoltre eseguì, a carboncino, con mani d’artista, un ingrandimento della foto di Mino. Tenne pure brevi parole, dopo la Messa, allo scoprimento della lapide. Furono parole contate, precise, scultoree e piene di sentimento. Tutti rimasero commossi. Ecco il testo della lapide che si conserva a Cadellara:

Alla N.D. Micaela Turco

Al Comm. Guglielmo Turco

che vollero con questa donazione

cristianamente ricordare

il diletto lagrimato

MINO

La perenne riconoscenza

dei Padri Stimmatini

21.2.1947

Ma lasciamo la parola al cronista: "Anniversario della nascita di Mino Turco. Per l’occasione abbiamo fatto preparare due lapidi che ricordano il dono fatto dai sigg. Turco ai PP. Stimmatini. La lapide minore posta accanto al cancello d’ingresso, l’altra maggiore nell’atrio della casa, dominato dal quadro di Mino Turco, eseguito a carboncino dalla mano maestra di p. Grigolli. Per la circostanza interviene il Rev.mo p. Provinciale accompagnato da qualche padre delle Stimate. Vi parteciparono pure, oltre i sigg. Turco, il sindaco di Colognola, il Parroco e molta gente del paese. Dopo la s. Messa cantata dal p. Provinciale, p. Grigolli dice indovinate parole di circostanza nell’atrio davanti alla lapide che viene quindi scoperta. Il p. Provinciale consegna poi ai sigg. Turco una pergamena con speciale benedizione ed autografo del Santo Padre". (Bert. 1947, pag. 194).

8. Nell’autunno dell’anno 1947, prima della ripresa dell’attività scolastica, nella Scuola Apostolica avvennero dei cambiamenti che posero fine all’emergenza causata dalla guerra. I professi che dimoravano a Cadellara ritornarono a Sezano, loro sede naturale, dopo quattro anni d’assenza e di una fortunosa odissea (24 ottobre). A loro si aggiunsero, nella medesima sede di Sezano, gli aspiranti di liceo, provenienti da Galbiate (27 settembre) e inoltre gli aspiranti di II Media.

La casa di Galbiate venne chiusa, l’immobile restituito alle suore del s. Cuore, e la comunità passò a Cadellara (1° ottobre). Qui pure presero dimora gli aspiranti di Prima Media, in numero di 35 e poco dopo anche venti altri ragazzini che avrebbero frequentato il corso preparatorio. (Cfr. Bert. 1947, pag. 297).

I coniugi Turco, che avevano già rinunciato all’aspirazione di vedere sempre a Cadellara gli studenti di teologia e avevano deposto pure l’idea di erigere la cappella destinata ad accogliere la salma del figlio Mino, cominciarono ad accettare la nuova realtà senza grossi traumi. Nota il cronista di Cadellara il 14 ottobre 1947: "Alla consueta Messa mensile di suffragio di Mino Turco intervengono i donatori di questa villa, che per la prima volta incontrano il nuovo personale e soprattutto i ragazzi in sostituzione dei professi: l’impressione è buona". (Bert. 1947, pag. 275).

 

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