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CAPITOLO 4

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Scuola Apostolica Bertoni. Uno spaccato di vita durante e dopo la guerra.

Capitolo 4

IV - Cadellara è qui vicina

 

1. La vita di studio, di pietà, di preparazione al sacerdozio e al ministero che caratterizza ogni seminario religioso aveva finalmente ritrovato la sua piena forma ed attuazione. Tutto procedeva nella serenità e nell’impegno da parte di tutti… Sennonché voci incontrollabili: "Si dice, pare, forse" arrivarono fino a Galbiate. Riferivano che una parte della Scuola Apostolica sarebbe dovuta ritornare presto nella zona di Verona. Questa volta non per costrizione da parte dei tedeschi ma perché inaspettatamente si era aperta la possibilità di avere in donazione una dimora stabile. Due coniugi, dopo la morte del figlio a causa di un incidente automobilistico, avevano deciso di donare al nostro Istituto una sede vasta e adatta per una comunità religiosa di formazione.

Il primo accenno di questa possibilità si riscontra nei verbali del Consiglio provinciale al 12 ottobre 1945, p. 138. "Viene fatta la proposta al nostro Istituto di avere in donazione la proprietà Turco a Cadellara". Il 19 successivo: "Viene deciso – dopo colloquio col Generale – il passaggio degli studenti teologi da Galbiate a Cadellara". Si stabilisce anche il personale: "P. Giuseppe Cappellina (scelto da p. Moresco ed approvato dal Superiore Provinciale, superiore delegato. I padri Fausto Longo, Luigi Dusi; e p. Francesco Pisetta padre spirituale e vice economo. Cadellara sarà casa filiale di Galbiate, perciò il direttore rimane p. Moresco". (p. 139).

Il 10 novembre avemmo a Galbiate la visita del p. Generale, accompagnato da p. Martinis. Evidentemente voleva rendersi conto della situazione della Scuola Apostolica prima di salpare per l’America, cosa che avvenne il 27 novembre 1945. (Bert. 1945, p. 392). Il cronista della casa di Affi, da parte sua, dà notizia che p. Ottavio Vallarsa, in novembre: "Lascia la comunità perché chiamato dai superiori a riattare la nuova sede dei professi teologi a Cadellara". (Bert. 1946, p. 76).

Ma a Galbiate le notizie arrivavano a spizzichi, per vie non ufficiali e perciò neppure sempre certe o esatte. Incredulità, stupore, disappunto da parte della comunità di Galbiate, soprattutto degli studenti di teologia che erano i più interessati all’ennesimo trasloco. Pareva proprio una persecuzione! Che cosa pensare? Che cosa fare?

Quando la notizia dell’imminente smembramento della Scuola Apostolica venne comunicata ufficialmente, p. Moresco convocò gli educatori per vedere insieme se vi fosse possibilità di evitare tale evenienza. Venne proposto di far presente ai superiori gli inconvenienti a cui sarebbero andati incontro gli studenti, e quindi pregarli di rimandare tale decisione alla fine dell’anno scolastico.

P. Emilio si recò a Verona, parlò con i superiori e consegnò loro per iscritto le nostre difficoltà e i nostri suggerimenti. La risposta fu la seguente: "Si insiste sulla nostra decisione per le seguenti ragioni: a) la volontà degli offerenti domanda una immediata occupazione;
b) perché c’è il pericolo che la villa venga occupata da Forze militari o da sinistrati". (Verbali vol. I, p. 143).

2. Non restava altro che obbedire e prepararsi alla partenza, ancorati alla fede che ci assicura che Dio avrebbe ricavato un bene da quel lungo peregrinare, come fu per Abramo.

Personalmente avevo la responsabilità e l’incarico della nuova avventura. Non me l’aspettavo: ma bisognava fare di necessità virtù. Fui esortato a recarmi a Verona per incontrare il Provinciale allo scopo di avere da lui chiarimenti e indicazioni e per vedere con i miei occhi la nuova sede di Cadellara.

Mi mossi subito dopo Natale: ricordo molto bene i particolari. Partii di buon mattino alla volta di Milano insieme a p. Fantozzi. Egli, da Roma dove si trovava, era salito al Nord per studiare la possibilità di ricostruire il Santuario della Madonna di Lourdes in Verona, distrutto dalla guerra. Con l’occasione visitava le comunità del Nord e si interessava della loro situazione.Venne anche a Galbiate dove il 17 dicembre ebbe calorose dimostrazioni di affetto e stima, per ricordare il 52° anno del suo sacerdozio, dato che il 50° era scaduto durante la guerra, quando l’Italia era divisa in due parti. "Piacevole allegria e varietà ci porta il sempre giovane p. Luigi Fantozzi, al quale prepariamo una festicciola per il suo 52° di Messa". (Bert. 1946, p. 15).

La comunità viveva proprio i momenti di incertezza e di tensione causati dello smembramento della Scuola Apostolica. P. Fantozzi, messo al corrente, se ne era un po’ immedesimato.

Scendemmo alla stazione di Sala al Barro con destinazione Milano, ma con sosta ad Arcore. Lì abitava una signora, la quale era proprietaria, insieme ad un fratello, della Villa Pullé o Scheibler in Boscochiesanuova. Sul treno dalla parte opposta dello scompartimento sedeva un signore distinto che stava recitando il Rosario, tutto raccolto ed assorto. P. Fantozzi ammiccò e, rivolto a me, cominciò a parlare dei treni che aveva conosciuto e sperimentato in Cina. Erano molto peggiori delle carozze sgangherate sulle quali stavamo viaggiando. Quel signore evidentemente stava ascoltando perché poco dopo rivolto a p. Fantozzi chiese: "Ma lei, padre, è stato in Cina?". Era la domanda ch’egli attendeva! Cominciò a narrare, con la sua parlata toscana fluente e fiorita, le condizioni delle ferrovie cinesi, senza orari, stracariche di gente e di bagagli. Aveva visto perfino un bagaglio singolare: una gabbia con tre caprette sulla vettura insieme ai viaggiatori! Diceva che nessuno sapeva quando il treno sarebbe arrivato, forse anche il giorno seguente. La gente stava accampata presso la stazione e all’arrivo del treno era un assalto per salire. Poi, dalle ferrovie, passò a parlare della vita dei missionari e delle prospettive che la Provvidenza apriva in quella terra. Ma dovette arrestarsi perché eravamo arrivati ad Arcore. Il signore commosso ringraziò p. Fantozzi dicendo: "Sono felice di aver avuto la compagnia di un sacerdote che fu missionario in Cina!". P. Fantozzi poi commentava: "Vedi, si trova sempre della buona gente da tutte le parti!"

La signora Pullé viveva col marito in una villetta appartata.

Persona distinta, non più giovane, pronta di parola e capace d’afferrare la situazione. Ci accolse cortesemente ma con un certo distacco. Non sapeva il motivo della nostra visita.

P. Fantozzi – dopo la presentazione – cominciò a parlare della guerra, della fucilazione di Galeazzo Ciano che egli aveva incontrato a Pechino quando era ambasciatore in Cina. Poi passò a parlare di Costanzo Ciano il padre, sua vecchia conoscenza, data la comune origine toscana. "Un cristianone, diceva, confratello del ss. Sacramento, che portava la torcia nelle processioni, senza rispetto umano". Poi di altri personaggi e di altre situazioni. La signora seguiva con molto interesse e interveniva spesso perché essa pure conosceva le persone delle quali p. Fantozzi andava parlando. Io stavo sulle spine mentre il marito della signora ascoltava in silenzio. Ad un certo punto la signora, da persona pratica, disse: "Si è fatto tardi, se non vi dispiace, rimanete nostri ospiti a colazione". P. Fantozzi non se lo fece dire due volte.

Fu una vera "colazione": un piatto di risotto allo zafferano, più qualche cosa da mettere sotto i denti con un panino! Limiti causati dalla guerra o stile di persone nobili?

Dopo il "lauto" pasto si passò in salotto. Questa volta il discorso si portò sul vero motivo dell’incontro. P. Fantozzi raccontò le vicissitudini dei nostri chierici sfollati a Boscochiesanuova dove avevano visto e ammirato la loro villa Pullé, ma non avevano incontrato i proprietari perché da parecchi anni non l’occupavano neppure durante i mesi estivi. Ultimamente era stata requisita dai tedeschi e poi dai miliari alleati che l’avevano deteriorata. I nostri chierici erano stati costretti ad emigrare in Brianza a causa della distruzione delle loro sedi in Verona. Ma presto sarebbero ritornati in quella zona di Verona dove una famiglia – dopo la morte dell’unico figlio perito in un incidente automobilistico – aveva donato un’abitazione per loro. Perciò egli chiedeva rispettosamente alla signora se fosse disposta a cedere la villa di Bosco per i chierici durante la stagione estiva, anche in affitto; o se aveva intenzione di alienarla, dato che da molto tempo la famiglia non l’usava; oppure se si sentisse ispirata ad imitare il generoso gesto dei signori Turco col donare la sua villa di Bosco ai Padri Stimmatini i quali avrebbero conservato perenne ricordo e riconoscenza verso i loro benefattori.

La signora mentre p. Fantozzi parlava con tanto calore non si scomponeva; poi rispose in modo evasivo anche se cortese. Disse che sull’avvenire di quella villa non aveva ancora pensato, che non apparteneva solo a lei ma anche al fratello (conte Emilio?) il quale si trovava allora a svernare nella maremma toscana, dalle parti di Grosseto e quindi doveva parlare prima con lui. Il marito che era rimasto sempre un po’ in ombra durante tutta la conversazione, intervenne con tono risoluto: "Abbiamo due nipoti, dobbiamo pensare pure a loro".

Il dialogo continuò ancora con alcune schermaglie, poi ci congedammo ringraziando della loro gentile e cordiale accoglienza.

Riprendemmo il viaggio verso Milano dove fummo ospiti presso i nostri confratelli della parrocchia s. Croce. Parlando del colloquio con la signora Pullé dicevo a p. Fantozzi: "Purtroppo non c’è da aspettarsi che la villa Pullé di Bosco venga ceduta!". Egli si dimostrava più possibilista. "Non si sa mai. Abbiamo gettato la semente, potrà spuntare. E poi la signora non ha detto di no". Feci inoltre presente a p. Fantozzi la mia sofferenza interiore quando divagava in discorsi estranei allo scopo della nostra visita. Egli mi rispose: "Vedi, se si vuole arrivare ad una conclusione positiva di un affare, bisogna prima creare un clima di simpatia con l’interlocutore."

3. Il giorno seguente proseguii da solo il viaggio per Verona, incontrai il p. Provinciale ed ebbi da lui informazioni più esatte ed ordini precisi. Mi ripeté che urgeva attuare il trasferimento e che mi recassi a Cadellara per definire con p. Ottavio Vallarsa i particolari e il giorno del nostro arrivo. "Del resto, concluse, tutto è pronto: i chierici non hanno che mettere le gambe sotto la tavola!".

Salii sul tram a Porta Vescovo e scesi a Strà di Caldiero. Un po’ seguendo le indicazioni avute, un po’ chiedendo, arrivai alla villa di Cadellara, cercando nel frattempo di fissare bene nella mia memoria l’itinerario. Incontro fraterno con p. Ottavio il quale, in abito di lavoro insieme al falegname sig. Campara, stava sistemando gli infissi delle finestre. Egli si trovava a Cadellara, da un mese e più, allo scopo di preparare la casa all’accoglienza per i chierici. Visitammo insieme accuratamente i diversi locali occorrenti per la vita di una comunità religiosa di formazione. L’impressione che riportai non fu tra le migliori. Pur trovandoci ancora in tempi di emergenza, si era lontani dal ravvisarvi, in quel momento, una dimora adatta per noi. Una cosa mi colpì tra le altre: il riscaldamento (eravamo nel cuore dell’inverno!) poteva contare soltanto su una stufa, istallata nella sala destinata ad aula scolastica. Tutti gli altri locali, "al freddo e al gelo". P. Ottavio era più ottimista: alcune cose le avrebbe potute provvedere prima dell’arrivo dei chierici e altre… un po’ alla volta.

Ritornai a Galbiate con una fitta nel cuore. Che cosa avrei potuto dire ai chierici, addolorati e contrariati per il nuovo, imminente trasloco? Non potevo né volevo ingannarli raccontando ciò che non rispondeva al vero, ma neppure volevo essere seminatore di pessimismo e di malumore. Ricordo che dovetti stare molto vicino al chierico Giovanni Reverberi il quale, milanese di Milano, vedeva sfumare la prospettiva di essere ordinato sacerdote nella propria città, vicino ai suoi cari.

Il trasferimento venne fissato per il giorno 11 gennaio 1946, al termine delle vacanze natalizie. Gli ultimi giorni di permanenza furono spesi per i preparativi del trasloco. Fratel Carlo Valenti si prestò generosamente per organizzare il trasporto di libri, sussidi scolastici, effetti personali, ecc. mediante camion. Ci furono vicini in quei momenti i superiori e i confratelli che restavano a Galbiate. Del resto "giuridicamente" appartenevamo ancora alla comunità di Galbiate, perché eravamo costituiti "casa filiale". Direttore rimaneva p. Moresco, io ero solo "superiore delegato". Con gli auguri, i saluti e gli abbracci di chi rimaneva, finalmente partimmo.

Il giorno 11 gennaio, un mattino limpido e di sole, scendemmo a piedi fino alla stazione di Sala al Barro: tre sacerdoti (il sottoscritto, p. Fausto Longo e p. Luigi Dusi) e 15 studenti del corso teologico. Sul treno trovammo posto su un carro merci coperto, affollato di persone che scendevano a Milano per il lavoro. Tutti in piedi, chi appoggiati alle pareti della "carrozza", chi a qualche sostegno aereo d’emergenza. Un vociare alto, frequenti scherzi e burle tra gruppetti d’amici, in quel treno "regale".

A Milano Centrale le cose migliorarono e potemmo trovare posto a sedere fino a Verona.

Accoglienza cordiale da parte dei confratelli delle Stimate e caldi auguri per la "nuova fondazione". Pregammo con fede davanti alle spoglie del Fondatore perché ce la mandasse buona e ci aiutasse nell’impresa che stava per cominciare. Il padre Provinciale, esuberante ed ottimista, parlò del dono provvidenziale che il Signore aveva fatto al nostro provato Istituto e assicurava che ci avrebbe presto fatto visita a Cadellara insieme ai due generosi donatori. Alle Stimate incontrammo p. Francesco Pisetta destinato padre spirituale ed economo della nuova comunità. Ci avrebbe raggiunti qualche giorno dopo.

Nel pomeriggio riprendemmo la via per Cadellara verso la stazione del tram, mentre scendeva la nebbia. La linea tranviaria era gestita da una società che portava la sigla SAER, sigla che la gente leggeva: "Salti alti e ropetòni". Interpretazione azzeccata per quella tratta, in quel tempo. Carrozze sgangherate, vetri infranti, sostituiti con fogli di cartone, sedili lignei di colore indecifrabile.

Era il momento in cui gli operai tornavano a casa dal lavoro: carrozze stipate, molti in piedi. Un fischio e via tra lo strepito delle ruote. Pure qui vociare, grida, risa, motteggi. Ad un certo momento un operaio uscì con una bestemmia, anche se erano ben visibili le nostre tonache di preti. Poco dopo gliene scappò un’altra. Ci guardammo negli occhi, interrogandoci se intervenire, quando il chierico Giuseppe Vignandel alzò la voce intimando a quel giovane signore di smettere di bestemmiare. L’operaio accusò il colpo. Però, dopo una pausa, con fare risentito e quasi parlando a sé stesso, uscì nel dire: "Vorrei vedere se fosse stato in Russia con noi, in mezzo a quei morti e in quel freddo". Vignandel di rimando: "Si ricordi che se in Russia c’è freddo, all’inferno c’è caldo!"

Giungemmo a Strà di Caldiero. La nebbia era divenuta fitta e l’oscurità avanzava. Che differenza dalla mattinata luminosa della Brianza! C’incamminammo in gruppo, per non smarrirci. Alla prima curva i chierici gridano: "È qui Cadellara?" – "No, è dopo la prossima curva". Arrivati a quella, ripetevano la domanda canzonatoria e liberatrice: "Siamo giunti a Cadellara?" Risposta da parte mia: "Non ancora, ma alla prossima curva". Meno male che il buon umore ritornava a rispuntare!

Finalmente giungemmo. Ecco il muro di cinta, ecco il cancello, ecco la villa che s’intravedeva immersa nell’oscurità e nella nebbia. Accorse p. Ottavio Vallarsa, ci diede il saluto di benvenuto con la sua voce bassa e cavernosa, con strette di mano e abbracci. Col suo fare pieno di calore e ottimismo ci rassicura: "Vedrete, vedrete che vi troverete bene"!

Ci portò a scoprire i nostri locali, ci parlò dell’attesa della buona gente di Cadellara, ci fece gustare la prima cena preparata dalle suore.

Eravamo ammirati e confusi, stanchi e sperduti per le emozioni di quella giornata: 11 gennaio 1946! Si chiudeva un pezzo della nostra storia e se ne apriva un altro pieno di incognite e di interrogativi. Ciononostante eravamo, come sempre, in buona compagnia. Viene in mente di applicare proprio a quella sera di nebbia e di stanchezza – nel cuore e nelle membra – le parole del Bertoni: "Quando per noi è notte, per Lui è giorno".

 

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