Nasce la Via dei Colli

 

Il forte s. Leonardo era collegato alla città dalla strada militare chiamata volgarmente "Lasagna". Fu aperta dagli Austriaci con lo scopo di permettere il rifornimento alle diverse opere fortificate della collina. Stretta, scoscesa, in alcuni tratti scavata in trincea, rispondeva mirabilmente al suo scopo, quando solo i pedoni, i muli e qualche carriaggio erano gli abituali passanti. Ma in quei momenti e per noi la situazione si presentava completamente diversa. Per poter accedere ad un seminario, e più ancora ad un santuario, meta di pellegrinaggi, occorreva una strada spaziosa, comoda, invitante. Inoltre, l’impresa costruttrice faceva presente l’impossibilità di far transitare per quella stradina i mezzi pesanti che dovevano portare i macchinari e i materiali necessari per la costruzione. Perciò avrebbe dato inizio ai lavori soltanto quando ci fosse stata una via percorribile.

Un giorno ero presente ad un colloquio di p. Fantozzi con l’ing. Loredan. Il Padre parlava di una strada, realizzata a Salerno, che unisce la città all’ospedale, posto in cima alla collina. E spiegava – se ricordo bene – come si snodasse in forma circolare all’interno di una costruzione di cemento, a forma di enorme torrione. Le macchine con breve tragitto salivano sul colle, senza occupare spazio. L’ingegnere interdetto, ma con nobile pacatezza, rispose: «Ma no, padre!», e spiegava come la topografia della località servita da quella strada doveva essere diversa da quella di Verona; che con tale soluzione i pullman non sarebbero potuti salire agevolmente; che non avrebbe permesso ai visitatori di ammirare l’incantevole panorama che varia ad ogni curva della strada. Inoltre il prof. Gazzola, protettore dell’ambiente, non avrebbe mai permesso la costruzione di un simile torrazzo. P. Fantozzi si quietò, non senza aver raccomandato all’ingegnere di recarsi a vedere quella realizzazione, quando fosse transitato da Salerno.

Poi riprendendo il discorso, disse che la strada doveva essere ampia, almeno di dodici metri di larghezza, perché numerosi fedeli e pellegrini sarebbero saliti lassù. L’ingegnere allora a spiegargli cortesemente che la strada non nasceva come arteria di grande traffico e che avrebbe congiunto solo la vallata con la collina, perciò la circolazione sarebbe stata sempre contenuta. Inoltre i proprietari sarebbero stati restii a cedere gratuitamente aree consistenti del proprio terreno. Si quietò.

P. Fantozzi era uomo che dall’idea passava subito all’azione. Prese contatto con due ingegneri, Eugenio Salvi e Federico Federici, sue vecchie conoscenze e amici, i quali si dichiararono disponibili ad aiutarlo. Fecero dei sopralluoghi nella zona, insieme all’avvocato Ederle, studiarono la situazione e stesero un progetto esecutivo per l’apertura di una strada di collegamento tra via Marsala e il forte s. Leonardo. Questo avvenne nel 1950. Poi, sempre tramite l’avv. Ederle, il progetto fu consegnato al comune di Verona e unito alla pratica per ottenere dal Ministero di Roma un Cantiere di Lavoro per operai disoccupati.

Questo fatto creò in seguito un lieve strascico di contestazioni a p. Fantozzi e a noi Stimmatini. Nel 1951 gli ingegneri chiesero a p. Fantozzi un compenso nella misura di 400.000 lire per il loro lavoro. P. Fantozzi rispose che spettava al Comune riconoscere la loro parcella, dato che aveva adottato il loro progetto e la strada nasceva come sua iniziativa. Il Comune nicchiava, sia perché non aveva fondi, sia perché erano gli Stimmatini i maggiori beneficiari della strada. Dopo un palleggiamento tra noi, Comune e ingegneri, gli Stimmatini accettarono di riconoscere ai progettisti un congruo onorario.

Piero Gonella, fratello dell’on. Guido Gonella solo per parte di padre, era in quel tempo Assessore ai Lavori Pubblici del Comune di Verona. Si mostrò favorevole, anzi entusiasta dell’idea e del progetto. Diceva: «Chiameremo questa strada, Strada dei Colli, come quella di Firenze. Ma forse la nostra sarà più panoramica di quella di Firenze».

Trabucchi, vice sindaco, condivideva la stessa persuasione. Perciò i tecnici dell’Ufficio comunale erano sufficientemente stimolati e motivati. Presero a cuore la pratica e la esperirono velocemente. Capo dell’Ufficio era l’ing. Nicolò, mentre addetto al settore delle strade, era l’ing. Bisi. Fu lui a portare avanti personalmente la pratica. Era capace, modesto, sollecito: proveniva da Mantova. Divenimmo amici.

L’esecuzione della strada dunque era una iniziativa del Comune. Non veniva costruita esclusivamente per gli Stimmatini, perché si congiungeva poi, sul colle, con quella esistente. Nasceva quindi nella prospettiva del "Viale dei Colli", come appunto voleva Gonella. Tuttavia si deve affermare che venne aperta "anche" per gli Stimmatini, dietro loro proposta e per loro interessamento. Se non ci fosse stata la spinta del Santuario (leggi: p. Fantozzi e gli Stimmatini) non so se sarebbe stata costruita, o almeno "quando" sarebbe stata realizzata.

Nell’esecuzione, accanto ai tecnici del Comune, si inserisce l’avv. Ederle, che aveva promesso a p. Martinis di non far pesare economicamente la strada sugli Stimmatini. La sua fu una presenza volontaria, quale esperto di Cantieri di Lavoro e come residente in quella zona collinare. Offrì la propria disponibilità per avvicinare e convincere i proprietari dei terreni a cedere gratuitamente l’area necessaria. Non fu impresa facile. A tutti faceva comodo che venisse costruita la strada, ma a patto che "si tenesse" ai confini della loro proprietà, o che ne togliesse solo qualche metro. All’avv. Ederle non mancavano né parola né capacità di persuasione, e inoltre era interessato personalmente alla strada, come residente e proprietario di terreni siti in collina. Egli riuscì ad avere l’adesione dei proprietari, ad eccezione di uno, il cui terreno era ipotecato e sotto sequestro cautelativo per conto di una banca. Terreno che sarà poi acquistato dal pittore Pino Casarini. Questa mancata cessione – perché il terreno era praticamente senza proprietario – porterà in seguito spiacevoli conseguenze.

Il tracciato della strada, come da progetto, partiva da via Marsala, saliva lentamente attraversando terreni coltivati, ma senza abitazioni, raggiungeva il crinale del colle, e proseguiva a nord, per unirsi con la strada scendente dall’ospedale s. Giuliana. Quella che si percorre attualmente.

Il Comune, avute le adesioni e completata la progettazione, allestì la pratica e la trasmise al Ministero dei Lavori Pubblici, allo scopo di ottenerne il finanziamento, come Cantiere di lavoro per operai disoccupati. I funzionari ci ripeterono più volte che era l’unica possibilità, perché l’Amministrazione non aveva soldi.

Il Cantiere di lavoro fu uno dei modi, escogitati nel dopo guerra, per venire incontro all’enorme disoccupazione esistente. Si affrontavano dei lavori semplici adatti per operai comuni, non specializzati o qualificati. Gli operai si prestavano per realizzare specialmente opere di utilità pubblica, ma non di grande rilevanza, come strade, piantagioni, rimboschimenti, sistemazioni ambientali, ecc. L’operaio riceveva £ 500 (cinquecento) al giorno (seicento per chi aveva famiglia a carico), più un pasto. Erano altri tempi, non c’era il fenomeno dei terzomondiali, mentre esisteva, visibile e diffusa, la povertà.

 

 

Padre Ettore Di Giusto

 

Era nato a Povoletto, vicino a Udine, il 6 giugno 1912. Desiderava farsi prete, come il fratello d. Giosuè, dell’Istituto d. Orione, ma rimase in famiglia per assistere la mamma, sola e anziana. Conseguito il diploma di maestro, durante la guerra fu chiamato alle armi e prestò servizio come sottotenente. Venne assegnato alla scorta dei convogli e treni che portavano rifornimenti nei Balcani. Finita la guerra e morta la madre, entrò da noi e fu subito immesso nel gruppo dei chierici, data la sua non giovanissima età. Nello studio della filosofia e teologia fu aiutato fraternamente da p. Guido Hoffer, mentre gli insegnanti chiudevano un occhio, sapendo che non era proprio un "cannone" nelle materie teologiche. Ricevette la prima tonsura il 17 novembre 1950, nella cappella privata del Vescovo, il quale poi si mostrò molto accondiscendente, perché gli conferì tutti gli ordini in breve lasso di tempo. (cf Bert. 1950, p. 293). Fu ordinato sacerdote, sempre nella cappella dell’episcopio, il 23 dicembre 1950 «dopo alcuni anni di studio riuscito di particolare sacrificio per la sua non giovane età. Sono presenti padri e studenti suoi compagni e un suo fratello pure sacerdote dell’Istituto di d. Orione». (Bert. ibid.).

Non aveva grande intelligenza, possedeva modesta cultura, ma era pio, fedele, tenace. Il comportamento era calmo, riservato, quasi solenne, che incuteva rispetto – sottolineato da una statura alta, squadrata ed imponente. – I suoi compagni lo chiamavano "il capitano". Il fatto poi che avesse fatto la guerra, anche se non aveva mai visto il fronte di combattimento, gli conferiva prestigio. Negli ultimi mesi che precedettero la sua ordinazione, si portava spesso a visitare l’ospedale militare (lui vecchio militare di sussistenza!) ed aveva fatto conoscenza con il direttore, che si chiamava Alfredo Sona, piemontese. Per suo tramite aveva anche avuto degli indumenti che non servivano più ai militari. Era nata una certa simpatia, anche se non proprio amicizia.

Da un po’ di tempo p. Cervini e tutti noi pensavamo di designare un confratello che risiedesse a Roma con l’incarico di seguire tutte le pratiche inerenti alla ricostruzione. Le parole dell’avvocato Trabucchi, che a Roma un novizio religioso poteva ottenere ascolto più che un "onorevole", e l’esperienza dei primi contatti con i Ministeri romani, consigliarono di affrettare i tempi. Si pensò perciò di scegliere p. Di Giusto, al quale non sarebbe stato assegnato, almeno all’inizio, nessun altro incarico specifico. La proposta fu accolta con soddisfazione da parte del designato e il p. Generale non fece alcuna obiezione; così il 25 gennaio 1951, un mese dopo l’ordinazione, p. Ettore arrivava a Roma e fissava la sua dimora presso la curia generalizia, a s. Agata.

Io fui pregato da p. Cervini di tenere le relazioni con p. Di Giusto, sia per i suoi impegni come religioso che per il suo incarico specifico. Da allora ebbi con lui una fitta corrispondenza. Riferivo naturalmente ogni cosa al p. Cervini e seguivo le sue direttive. Ne raccolsi un voluminoso plico, che tenni con me fino alla mia destinazione a Ferrara, nel 1982, e che distrussi perché "ingombrante". Ora mi batto il petto, perché potrei avere una miniera di notizie di prima mano e rivivere il clima emotivo di tante situazioni, espresso da chi le stava vivendo.

Ma, a parte questo, la presenza di p. Di Giusto a Roma è stata preziosa. Ha reso possibile e ha abbreviato di molto l’iter delle pratiche e quindi della ricostruzione. Si deve dare atto e riconoscere onestamente a lui questo merito, anche se poi è andato oltre il suo incarico, creando qualche difficoltà all’Istituto.

Continuiamo ora il discorso della strada che doveva congiungere la Valdonega con s. Leonardo e le Torricelle. P. Di Giusto, prima di scendere a Roma, fece visita al Maggiore Alfredo Sona e lo mise al corrente della sua destinazione e dell’incarico ricevuto. Quando Sona sentì il nome di "Cantiere di lavoro", scattò: «Ma io a Roma ho un cognato che è Ispettore al Ministero del Lavoro. La prima volta che scenderò a Roma per ufficio, ti porto da lui e te lo faccio conoscere».

Così fu. Poco tempo dopo, p. Di Giusto andò con Sona al Ministero del Lavoro. Il cognato, dr. Pietro Frattagli, era proprio alla Sezione dei Cantieri di lavoro e dell’Emigrazione. Sposò subito in pieno la causa e scrisse una lettera che pregò di consegnare al Direttore dell’Ufficio del Lavoro di Verona, dr. Sorrentino.

Il Maggiore Sona al suo ritorno mi volle con sé per presentarci insieme al Direttore. Sorrentino lesse con calma la lettera nella quale il comm. Frattagli lo invitava a dare la precedenza assoluta al Cantiere della strada s. Leonardo. Poi concluse: «Il dr. Frattagli non sa che io ho una Commissione? Come me la vedo con quella?».

La difficoltà era la seguente. Presso il Ministero del Lavoro erano giacenti, per l’approvazione, da 60 a 70 progetti di Cantieri di lavoro presentati dalla Provincia di Verona. Quello di s. Leonardo, in ordine di presentazione e quindi in graduatoria, era il terzultimo.

Il maggior Sona replicò: «Mio cognato la prega di inviare al Ministero una lettera in cui si richiede che il Cantiere di s. Leonardo – data la sua urgenza ed importanza – abbia la precedenza sugli altri, e quindi venga approvato tra i primi, altrimenti interverrà lui d’ufficio». «Vedremo che cosa si può fare», concluse il dr. Sorrentino, e gentilmente ci congedò.

Dopo non molto tempo, venne la comunicazione che il Cantiere per la costruzione della strada di s. Leonardo era stato approvato, e si potevano iniziare i lavori.

Aggiungo – anche se non c’entra con il tema – che l’amicizia tra gli Stimmatini, il Maggiore Sona e il dr. Frattagli andò crescendo e, tramite il loro intervento, fu possibile ottenere Cantieri di lavoro per noi e per altri: come la demolizione del forte, la piantagione di cipressi a san Leonardo, la sistemazione di alcune strade nel comune di Boscochiesanuova, la strada che unisce Valdiporro con s. Francesco.

 

 

Cantiere in funzione

 

P. Fantozzi, in questo frattempo, pur nelle sue frequenti indisposizioni, era sempre in diretto contatto con il trio Gazzola-Loredan-Ederle e, naturalmente, con il p. Provinciale e… con chi credeva. Fu in questi contatti che egli pensò di proporre una persona di sua fiducia a capo del Cantiere che stava per iniziare. Era una sua vecchia conoscenza, un "amico": il colonnello, in pensione, Frontero. Persona cristiana, perbene, seria. Forse, se avesse avuto un po’ più di polso, sarebbe stato perfetto.

Dunque si comincia. L’ora ics scocca nell’estate del 1951 (non so esattamente la data). Cento operai si trovano sul posto. Badili, picconi e carriole sono forniti dal Comune. L’avv. Ederle, in veste di manager, e il col. Frontero assegnano il lavoro. I rappresentanti del Comune, con in mano il disegno, indicano dove scavare e riportare il materiale, per creare il fondo stradale. Lo sbancamento prende l’avvio a metà collina circa: una squadra di 50 operai si muove verso la sommità del colle e un’altra squadra, pure di 50, scende verso valle. A mezzogiorno viene servito il pranzo confezionato dalla POA (Pontificia Opera d’Assistenza) che aveva ottenuto l’incarico di fornire il pasto a tutti i Cantieri.

La macchina si mette in moto e va avanti con lentezza ma con regolarità. Qualche piccolo neo: una diecina di operai erano da poco usciti dal carcere, e bisognava "guardare e non toccare". Altri si mettevano sotto un’ombra, seduti, fin dal mattino, bevendo qualche bicchiere. All’invito del capo Cantiere di prendere il posto di lavoro, rispondevano: «Noi, 500 lire, ce le siamo guadagnate solo venendo fin quassù!». Prudenza e tatto. Noi, di nostra iniziativa, procurammo qualche damigiana di vino bianco, perché ne potessero bere almeno un bicchiere, durante il pasto. La cosa fu apprezzata e ottenne un maggior impegno da parte di qualcuno. Comunque le cose andavano come in tutti gli altri Cantieri – e forse anche meglio – e il tracciato prendeva vita, a poco a poco, tra le coltivazioni. Quando venne l’improvviso, ma prevedibile fermo dei lavori!

Il terreno "senza padrone", perché sotto sequestro a favore di una banca, aveva ora un proprietario, il pittore Pino Casarini. Quando egli vide invaso il terreno appena acquistato, senza esprimere alcuna protesta verbale, si rivolse ad un avvocato, il quale scrisse una lettera di diffida al Comune ritenendolo responsabile di aver occupato la proprietà del Casarini, il quale si riservava in merito ogni azione di legge.

I funzionari del Comune accusarono il colpo e diedero ordine di sospendere immediatamente i lavori. Malumori degli operai e disappunto da parte nostra.

Dai contatti avuti col Comune, con Ederle e i nostri abituali consiglieri, apparve subito che il Comune non voleva affatto che nascesse una vertenza giudiziaria, anche perché l’errore era nato dalla faciloneria di Ederle. L’unica via era quella di ricercare una composizione amichevole con il pittore Casarini. Gli interlocutori più indicati erano i padri Stimmatini, i quali giuridicamente erano estranei alla faccenda, ma in pratica erano i promotori e i destinatari principali della strada.

P. Cervini incaricò me a incontrare l’avv. Mario Bianchi, colui che aveva inviato la lettera al Comune, per conto di Casarini. Mi presentai e spiegai all’avvocato come erano successe le cose ed anche perché veniva da lui un padre stimmatino e non un funzionario del Comune. L’avvocato si mostrò molto conciliante, affermò che il Casarini era molto irritato per il modo con cui si era agito. Egli poi, l’avv. Bianchi, conosceva bene gli Stimmatini, aveva anche insegnato al Patronato delle Stimate. Mi fece incontrare con il pittore, al quale chiesi scusa per l’atto poco corretto compiuto nei suoi riguardi e lo pregai di addivenire ad una soluzione. Mi disse: «Lo faccio, non per il Comune né per l’avv. Ederle, che non lo meriterebbero, ma per gli Stimmatini e la Madonna». Parlammo anche di pittura; mi fece vedere un album contenente le sue più recenti composizioni, nel duomo di Sacile. Buttò lì anche qualche avance, dicendo: «Chissà, un domani potrei anche decorare il nuovo Santuario con degli affreschi o qualche tela». In conclusione: egli non era contrario che si costruisse la strada, anche se aveva pensato di acquistare una casa isolata, dove lavorare in pace. Tuttavia, faceva presente che la strada si addentrava profondamente nel suo terreno, pregiudicando la libertà di movimento e la quiete. Una correzione apportata dal Comune, lo avrebbe visto consenziente alla ripresa dei lavori.

La notizia diede a tutti un senso di sollievo. Quindi, un giorno, l’ing. Bisi del Comune si recò sul luogo alla presenza di Casarini, del suo avvocato e di altri. Venne concordato di arretrare il tracciato della strada di qualche metro, proprio nella curva, e di chiudere la proprietà di Casarini con un muretto e una rete di protezione, a spese del Comune. Chi osserva ora la curva, si accorge che è stretta e sale rapidamente in pochi metri. Non è secondo i canoni della tecnica in materia, ma risulta dal compromesso tra il Comune e il Casarini.

Passato questo incidente di lavoro il Cantiere riprese la sua attività. Ci fu per noi però un piccolo seguito economico. Il pittore Casarini fece presente che, a causa dell’invasione del terreno, dovette rivolgersi ad un legale, il quale ora chiedeva il suo compenso. Il Comune mise avanti i soliti motivi per non pagare. Decidemmo di accollarci l’onere noi Stimmatini. Ricordo che portai io stesso all’avv. Bianchi la somma richiesta per le sue prestazioni: 200.000 lire.

Il Cantiere di lavoro era stato concesso dal Ministero per 100 operai e per la durata di tre mesi. Nella facile previsione che il tracciato della strada non sarebbe stato realizzato con il lavoro di quel solo Cantiere, ne venne chiesto un secondo, sempre per 100 operai e per la durata di tre mesi. Poiché si trattava di lavori in corso, fu facile ottenerlo e in breve tempo. Finito anche questo, senza aver terminato i lavori, ne fu chiesto – e venne concesso – un altro della medesima entità, col quale finalmente tutto il tracciato della strada venne portato a termine.

Prima di finire tuttavia, arrivò un altro incidente di percorso. Quando i lavori per il tracciato della strada arrivarono a toccare la proprietà dei signori Gerard, alla sommità del colle, essi opposero un rifiuto. Perché non erano disposti a cedere il terreno gratuitamente – come avevano fatto gli altri proprietari – ma esigevano un risarcimento in denaro. Ma chi avrebbe pagato? Il Comune neppure per sogno. Allora gli Stimmatini, i quali avevano urgente necessità della strada. P. Fantozzi, tramite sempre l’ing. Loredan, si mise in contatto con i signori Gerard. Ma la loro richiesta sembrò eccessiva, per cui pensò di rivolgersi direttamente alla "padrona", cioè alla madre della numerosa famiglia, con la speranza di ottenere un prezzo più contenuto ed equo. Pare che la richiesta non venisse accolta, perché più tardi, il 5 maggio 1952, il sindaco Giovanni Uberti inoltrò domanda al Prefetto di Verona per avere l’autorizzazione di occupare il terreno dei Gerard, con procedura d’urgenza, a motivo della necessità ed urgenza di completare la strada iniziata. La superficie da espropriare era stata calcolata in mq. 2.250. (Doc. 6).

Non conosco come la faccenda andò a finire, ma i lavori poterono intanto proseguire.

La strada così tracciata, col fondo di terra e sassi, non era certo percorribile soprattutto da mezzi pesanti e autocarri a pieno carico. Occorreva almeno una massicciata in macadam (fu allora che sentii per la prima volta questo termine!), rimandando l’asfaltatura a tempi migliori.

Ma di nuovo, chi doveva assumere l’onere del lavoro? È la solita storia del pastore... Il Comune non aveva mezzi, ma anche li avesse avuti, preferiva spenderli in altri lavori che riteneva più necessari. In seguito, senz’altro, la strada sarebbe stata completata: forse fra due o tre anni. Essi non avevano fretta, ma sapevano che la fretta l’avevamo noi. L’impresa aveva approntato tutto per la costruzione della Scuola Apostolica: attendeva solo che ci fosse una strada percorribile. Che fare? Non potevamo certo aspettare degli anni.

Venne presa la decisione di assumere noi, l’onere finanziario per la massicciatura della strada. Non però di tutta la larghezza, ma solo di metà, quanto era necessario allo scopo.

Fu prospettata la cosa all’impresa Andreotti, con la quale oramai si camminava in simbiosi. Essa accettò di eseguire il lavoro, conglobando l’importo del costo nel prezzo del terreno della ss. Trinità, che essa impresa stava per acquistare da noi. Ciò avvenne con una convenzione preliminare, in data 20.6.1952. (Vedi doc. 12).

L’Impresa aveva mezzi, capacità, ed anche fretta di iniziare. I lavori, condotti in armonia con l’attività del Cantiere del Comune, terminarono nella primavera del 1954, in tempo per iniziare a pieno ritmo il cantiere per la costruzione della Scuola Apostolica.

 

Torna all'indice

Vai alla cartella successiva

Vai a vedere le foto