Approccio al forte San Leonardo

 

Il forte s. Leonardo, durante la guerra 1940-45, venne adibito a prigione politica e militare. Molti prigionieri, partigiani – o sospettati tali – sbandati, renitenti alla leva, furono rinchiusi in quelle celle oscure e finirono in Germania, o ne uscirono per essere fucilati, o poterono ricuperare la libertà. Non consta che lassù fossero state eseguite fucilazioni. Qualche detenuto venne in seguito a visitare la ex prigione trasformata in luogo di culto e pianse di commozione. Mons. Signorato che si prendeva cura dei prigionieri durante il periodo bellico, affermava di essere penetrato in quella fortificazione-carcere, di aver trovato delle celle stipate, di essere stato testimone della severità teutonica e dello smarrimento dei reclusi per l’incertezza del loro destino, ma niente "lager".

Terminata la guerra, – in regime di semi anarchia – a causa della carenza di abitazioni, venne occupato dai senzatetto, con l’acquiescenza delle autorità. Vi erano alloggiate, o accampate, una ventina di famiglie. Ogni tanto qualche famiglia trovava una sistemazione più umana, e se ne andava. I rimanenti potevano respirare, sempre che qualche altro non si sostituisse, magari con la forza. Era un edificio pubblico, quindi di tutti, e per di più non si pagava affitto.

Quando noi iniziammo le trattative per ottenere l’affidamento del forte, vi dimoravano solo una diecina di famiglie. Ricordo di avere avuto contatti con due. La famiglia di un carabiniere in servizio, con moglie e due figli. Persona umana, molto a modo. La sua divisa e la sua presenza servirono assai ad impedire o attenuare contrasti e litigi tra gli inquilini. L’altra famiglia di una donna, non sposata, con bambino. Fu l’ultima a lasciare il forte, quando i nostri studenti dimoravano già nel nuovo edificio della Scuola Apostolica. Camminava con le stampelle (quando era vista da qualcuno!) e fece il trasloco solo dopo che il Comune, anche per nostro interessamento, le assegnò un alloggio popolare, nell’ottobre del 1960.

Le autorità militari di Verona non opposero difficoltà alla cessione del forte s. Leonardo ad un ente che l’avrebbe trasformato in Santuario. L’Italia, appena uscita da una guerra, assurda e disastrosa, provava rigetto per tutto ciò che sapeva di militare. Inoltre il trattato di pace le aveva concesso di tenere solo un esercito "simbolico". Gli edifici militari erano in esubero e rappresentavano un onere per lo Stato.

Inoltre, sempre a Verona, incontrammo funzionari disposti, anzi felici, di poter concorrere alla realizzazione del Santuario tramite la dismissione del forte. Una di queste persone fu il geometra Vincenzo Caruso, siciliano, sposato ad una veronese di Legnago. Aperto, dinamico, diceva e faceva. Divenne un ottimo amico. Funzionario del Genio Militare in questo settore, ogni pratica passava dal suo ufficio. Altra persona, disponibile e amica, fu l’ing. Musso, pure lui siciliano, di Ribera. Funzionario presso l’Ufficio Tecnico Erariale, sposato ad una vicentina di Thiene. Spettava a lui il compito di redigere o esaminare le perizie dal lato tecnico-estimativo sugli immobili. Riservato e signorile, era legato da profonda amicizia con il geom. Caruso ed egualmente ben disposto verso di noi.

Il geom. Caruso ci propose di richiedere al demanio l’acquisto anche del forte s. Mattia e del terreno adiacente al forte s. Sofia. Noi rifiutammo la prima proposta perché non ne vedevamo l’utilità e l’opportunità, ma accettammo la seconda, al fine di evitare che altri si impossessassero o ne usassero per scopi meno convenienti.

Tenemmo quel terreno per alcuni anni. Poi lo cedemmo: parte alla forestale che vi eseguì una piantagione di cipressi, e parte alla Provincia di Verona che l’usò come parco e cortili per i bambini del CERRIS.

Le pratiche per la dismissione del forte seguirono il loro iter a Roma, presso il Ministero della Difesa-Esercito. Il geom. Caruso era sicuro della conclusione positiva della pratica, a motivo del parere positivo espresso dall’ufficio di Verona e per il clima di disponibilità da lui percepito presso gli ambienti di Roma. Perciò consigliò di richiedere subito la consegna del forte in attesa dell’effettiva dismissione. Ciò fu ottenuto con facilità e in breve tempo. Il forte venne de facto consegnato al nostro Istituto. Il cronista di Sezano al giorno 19 febbraio 1952 nota: «Da un funzionario dell’Intendenza di Finanza viene ufficialmente consegnato in custodia alla Scuola Apostolica il forte di s. Leonardo, dove, se Dio vuole, dovrà sorgere il Santuario della Madonna di Lourdes, in attesa che venga ceduta dal Demanio la proprietà del forte stesso». (Bert. 1952, p. 75).

Fu una grande soddisfazione per tutti noi, un segnale positivo nella lunga via ancora da percorrere.

P. Fantozzi, d’accordo con il Provinciale, incaricò un uomo di sua fiducia di prendersi cura del forte e degli inquilini. Il custode dimorò lassù fino al giorno in cui vi si stabilì l’impresa per dare inizio ai lavori per la costruzione della Scuola Apostolica.

Le pratiche per la cessione del forte furono seguite, a Verona, dal geom. Caruso e, a Roma, da p. Di Giusto. Egli aveva superato bene il primo impatto con la pubblica amministrazione e a poco a poco aveva fatto conoscenza ed anche amicizia con impiegati e funzionari e, tramite il loro aiuto, poté essere introdotto anche nelle stanze dei bottoni. La sua presenza presso i vari Ministeri fu assidua e puntuale, generosa e tenace. Da buon friulano non demordeva davanti alle difficoltà.

Nella frequente corrispondenza che aveva con me, non tutto era chiaro: scriveva in forma laconica, annaspava per la complessità della situazione e dei pareri, spesso diversi, che coglieva dai funzionari. Ma l’opera sua è stata utile, efficace, direi provvidenziale.

Quanto tempo fu necessario per concludere la vicenda e per poter dire che finalmente il forte era degli Stimmatini? Molto, certo. Nel mio subcosciente mi par di poter dire che la durata fu di quattro anni, più o meno. Facevo presente, una volta, ad un funzionario del Comune di Verona la grande lentezza della burocrazia romana in questo genere di cose. «Siete stati fortunati, mi disse, noi del Comune, per una pratica simile alla vostra, abbiamo impiegato dieci anni!».

Non possiedo più la corrispondenza di p. Di Giusto che fotografava le diverse fasi del lungo iter: speranze, promesse, cambiamento di situazioni o di pareri. Mi limito ad esporre solo la sostanza delle cose, senza entrare nei particolari.

 

Conosciamo bene che i beni demaniali delle Stato sono intangibili. Per poterne alienare qualcuno, l’autorità competente deve dichiarare che quel bene non è più necessario allo Stato. Con ciò passa dai beni demaniali ai beni patrimoniali dello Stato, e solo allora può essere alienato. Spetta poi all’Amministrazione valutare se, quando, a chi e a quale prezzo alienare, secondo la sua discrezionalità. La pratica della dismissione del forte s. Leonardo doveva quindi passare sotto queste forche caudine. (Doc. 7).

Secondo quanto scriveva p. Di Giusto, il Direttore Generale del Demanio non vedeva di buon occhio, anzi soffriva nel costatare la facilità con cui allora si cedevano e vendevano i beni militari dello Stato. Di giorno in giorno quel patrimonio si stava velocemente polverizzando. Perciò egli si dimostrava severo e pignolo nell’esaminare le richieste di acquisto di ex beni militari e spesso opponeva un netto rifiuto. L’alto funzionario si chiamava comm. Crudele. P. Di Giusto cercò di convincere qualche capo sezione del Demanio a interporre i propri buoni uffici presso il Direttore Generale, ma inutilmente. Provò a presentarsi personalmente al comm. Crudele, ma ebbe solo delle risposte interlocutorie. Scrisse allora a noi perché pregassimo la Madonna affinché toccasse il cuore a quel funzionario.

Dopo un po’ di tempo p. Di Giusto ebbe l’ispirazione di presentarsi al senatore Antonio Alberti, veronese, allora vicepresidente del Senato, di metterlo al corrente della situazione e di chiedere il suo aiuto, anzi il suo personale intervento. Il senatore Alberti accondiscese volentieri e venne fissato un appuntamento con il commendatore Crudele. Ammesso nel suo ufficio – raccontava poi p. Di Giusto presente al colloquio – il Senatore prese un atteggiamento supplichevole ma dignitoso.

«Raccomando la mia Verona, commendatore, che è stata ferita dai bombardamenti e che sta risorgendo dalle macerie. Mi sta grandemente a cuore l’opera religiosa del Santuario della Madonna, tanto atteso dalla città. Dall’alto del colle tantissimi verranno ad ammirare l’incanto del panorama e saranno grati a Lei che ha dato questa possibilità!».

Di tal genere, se non tali appunto – direbbe il Manzoni – erano i discorsi del sen. Alberti. Il comm. Crudele appoggiò la testa fra le mani, e i gomiti sul tavolo, e stette in silenzio per un buon tratto. «Io intanto dicevo qualche giaculatoria alla Madonna», raccontava poi p. Di Giusto. Finalmente il Commendatore ruppe il silenzio e disse: «Mi chiamo Crudele di nome e lo sono di fatto. Ci tengo con le unghie che non venga dissolto il patrimonio dello Stato. Ma faccio questa eccezione per lei, senatore, e per la sua Verona». (Doc. 8).

 

Si passò ben presto alla fase esecutiva per la cessione del forte. Ma in che modo? Il comm. Crudele, fedele alle sue personali convinzioni, scartò la via più semplice, quella della vendita del forte ai Padri Stimmatini, e scelse invece quella della permuta. In tal modo salvava, a beneficio del demanio militare, quello che era possibile salvare. (Doc. 9).

Infatti se si fosse proceduto alla vendita – così mi fu spiegato – il prezzo pagato dagli Stimmatini sarebbe stato incassato dal Ministero delle Finanze e non da quello della Difesa. Mentre con la permuta, il Ministero della Difesa acquistava il possesso di un immobile nell’atto stesso con cui cedeva la proprietà del forte s. Leonardo. Quale? Venne proposto di costruire, a spese degli Stimmatini, una casa di abitazione per sottufficiali, all’interno del recinto della caserma Passalacqua, sita nell’attuale Viale Università 5, entro le mura della Città.

Naturalmente l’edificio – senza computare il prezzo del terreno che era di proprietà demaniale – doveva corrispondere a quello del forte, secondo la stima che sarebbe stata eseguita dall’Ufficio Tecnico Erariale di Verona.

La progettazione ed esecuzione dell’edificio venne affidata all’ing. Loredan e suo studio. I relativi lavori furono eseguiti da una modesta impresa locale e arrivarono velocemente a termine. In effetti non richiedevano un impegno rilevante. Si trattava di un fabbricato, comprendente uno scantinato e un piano rialzato, in tutto 8 locali, più i servizi. La linea semplice, funzionale, con infissi, pavimenti e connessi di tipo normale.

La costruzione completamente finita costò a noi sui quattro milioni. Come contropartita ci venivano dati: il forte, il piazzale, il terrapieno retrostante e la stradina d’accesso. La proprietà immobiliare era distinta in catasto del comune di Verona, alla Sez. A, F° VII, n. C, della superficie di ettari 1,4.06. Il tutto valutato, dall’Ufficio Tecnico, al prezzo di £ 3.500.000.

Avvenuto il collaudo del modesto fabbricato, ottenute tutte le autorizzazioni, si addivenne alla firma dell’atto di permuta, alla presenza dell’Intendente di Finanza, dr. Fontanazza Umberto, del dr. Vita, del geom. Caruso, dell’avv. Ederle, dell’ing. Loredan e di me, quale rappresentante legale dell’Ente Scuola Apostolica Bertoni. Fu una cosa semplice, burocratica: lettura dell’atto, scambio delle firme e dei documenti. Ma fu la pietra miliare, termine di lunga attesa e inizio della sospirata costruzione del Santuario dell’Immacolata di Lourdes. (Doc. 10).

Foto della costruzione dell'ala dei padri.

 

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