Capitolo IX

ASCETA DEL PERFETTO DISTACCO

DA SÉ STESSO E DELL'ABBANDONO IN DIO

 

Per diventare maestri così sublimi di virtù, di sapienza cristiana, di perfezione bisogna prima vivere nella propria vita quello che si vuole insegnare agli altri.

Don Gaspare stesso dice in una delle sue prediche a noi lasciate scritte: “I ministri di Dio insegnino non solo per scienza, ma per esperienza, e niente a sé attribuiscano”. Tale deve essere la scuola di perfezione, altrimenti fallirà lo scopo, e non gioverà ad alcuno: né a chi pretende di insegnare, né a chi ascolta.

È comunemente ammesso dai biografi che la caratteristica più completa e più rilevata della spiritualità del Bertoni è il suo stato di completo e costante abbandono in Dio: per tutte le cose; in tutte le circostanze, in ogni tempo.

Una disposizione d'animo, uno stato appunto, che è qualcosa di complesso, che è la risultante dell'esercizio di molte virtù.

È senz'altro uno stato di perfezione, a cui il Bertoni per­venne molto presto, fin dai suoi giovani anni, e nel quale si mantenne ininterrottamente, progredendo sempre più innanzi.

Circa questa pratica di perfezione, circa questo esercizio di virtù, noi possediamo non solo i suoi esempi ammirabili, ma anche la sua teoria, la sua dottrina, da lui stesso esposta in pagine stupende, magnifiche; con una chiarezza e semplicità che sono alla portata di chiunque; con termini ed immagini pieni di poesia.

Diamo subito qualche brano, avvertendo che anche in questo argomento, in una Vita Breve come questa, non si può fare altro che toccare ed accennare.

In data 31 agosto 1813, subito dopo la sua seconda grave malattia, mentre si trovava in convalescenza a Colognola ai Colli; quando per la seconda volta si tornava alla carica da parte del Vescovo e della Curia per destinarlo a Vicerettore in Seminario, egli scrisse queste righe alla Naudet: “Si vede che il Signore vuole che noi ci ricordiamo di Lui, ed in Lui sia tutto il nostro affetto perpetuamente fermo e raccolto. E se per questo dimenticheremo altre cose, Egli le saprà ricordare a noi, o con la sua Provvidenza condurrà le cose assai meglio, che noi con tutto il nostro ricordare e pensare avremmo fatto. Insomma noi siamo sempre diligenti quando «diligimus Deum». Beato colui che si perde in questo abisso! Che si getta animoso e naufrago in questo oceano! Non è mai più sicuro un figlioletto che quando addormito in collo alla madre abbandona ogni pensiero, ogni sollecitudine di sé. Ei non vede, ei non ode, ei non parla. Ma vede per lui e ode e parla e opera la madre. E quando ella vuole, sa e può svegliarlo standole sì vicino”.

Delizioso!  E non dimentichiamo che sono le parole d'un convalescente da grave malattia fisica (in cui già è ricaduto e ancora ricadrà), che da un anno è perseguito da un grave cruccio morale (la progettata nomina a Vicerettore), uno dei due più grandi di tutta la sua vita.

L'altro lo ebbe una decina di anni più tardi quando si pensò di promuoverlo canonico della Cattedrale.

Tutta la lettera da cui è tolto questo brano è volta a consigliarsi con la Naudet per combinare il modo di sfuggire a quella nomina. Don Gaspare vi mette a nudo tutta l'ambascia e tutta l'angustia del suo animo, e nello stesso tempo tutta la santità e la rettitudine delle sue intenzioni. La sua viva fede gli fa temere che qualcosa di umano si intrufoli nel suo comportamento, e allora d'un balzo prende il volo verso le altezze scintillanti.

Ecco un altro brano, che sembra la continuazione di quello riportato ed invece era stato scritto qualche mese prima (nel feb. 1813): “Lasciamo liberamente Iddio entrare e possedere quest'anima, ch'Ei tanto ama e cerca di unire a sé. Conosciamo il tempo della sua visita; scongiuriamo tutte le creature e i nostri sensi a non destare quest'anima quando ella si riposa nel suo Signore! Né più si richiede. A suo tempo ella produrrà un frutto prezioso, alto, nobile, degno di nozze sì sante e sì sublimi”.

La costanza e la dolcezza delle medesime immagini sta a provare quanto queste dottrine fossero chiare e limpide nell'animo di chi le esponeva. Nemmeno i nostri peccati, i nostri difetti, devono farci ostacolo a questo pieno abbandono in Dio.

Li difetti nostri eran pur noti al Signore anche prima che ne invitasse. E se questi si vanno facendo ora più noti agli occhi nostri, dobbiamo anche molto più aver conosciuta la sua Bontà e Onnipotenza: onde è forza e dovere che insieme con la umiltà cresca la confidenza”. (28 giugno 1813).

Noi non conoscevamo le nostre insufficienze, ma Dio le conosceva benissimo. Nonostante tutto Egli ci ha prescelti ugualmente. Adesso che ci conosciamo incapaci ed indegni, cresca pure la nostra umiltà, ma cresca anche la nostra riconoscenza e la nostra confidenza in Lui, che con la sua onnipotenza e misericordia supplisce a tutto.

La parola «abbandono» nella sua comune accezione e spiegazione (in campo ascetico-mistico), sembra riferirsi soltanto, o per lo meno in modo precipuo, alla «volontà di Dio, di beneplacito». I maestri di ascetica distinguono la volontà di Dio in due specie, per ragione del modo con cui viene a noi manifestata. Chiamano «volontà di segno» la volontà di Dio che è a noi manifestata nei suoi comandamenti, nei precetti della Chiesa, nei comandi dei Superiori e delle autorità in genere.

Chiamano «volontà di beneplacito» quella volontà di Dio che, espletate tutte le indagini a noi possibili, non risulta chiara alla nostra conoscenza attraverso questa nostra ricerca, ma ci si manifesta soltanto nell'avverarsi e nel susseguirsi di avvenimenti che superano la nostra penetrazione.

Spesso si tratta di fatti dolorosi, o contrari alle nostre supposizioni e previsioni, e allora si usa parlare di rassegnazione, di abbandono, di conformità alla volontà di Dio.

Quando invece si tratta della volontà di Dio a noi manifestata in modo diretto, si parla di obbedienza, di osservanza, di pratica dei comandamenti. Si dà rilievo cioè al concorso nostro, umano, al compimento della volontà divina; accentuando il nostro obbligo, il nostro dovere, rico­noscendo il nostro merito. Così comunemente tutti; e universalmente quanto ad ogni materia.

Ebbene il Bertoni ci dà un concetto tutto suo del santo abbandono alla volontà di Dio: un concetto altamente teologico e filosofico, un concetto completo e perfetto, frutto di una rigorosa deduzione.

I profondi studi tomistici da lui compiuti nella sua giovinezza, e poi sempre durante tutta la sua vita, gli si convertirono in sangue, e in alimento spirituale della più alta qualità. Solo pochi anni dopo il suo sacerdozio, fra i trenta e i trentacinque della sua età, era in grado di rendere con un suo linguaggio incantevole,  quanto aveva assorbito dalla Somma Teologica e dai più ardui trattati.

Ecco un testo, che contiene quanto andiamo affermando: “Bella virtù è abbandonarsi, quando non possiamo operare noi, alle braccia onnipotenti della Divina Provvidenza; ma più consumata e perfetta virtù, quando noi pure possiamo e dobbiamo secondo l'ordine della Provvidenza operare con le nostre mani, non cessare punto dall'essere ugualmente e del tutto abbandonati alle sue. Così pare che fosse chi diceva: «Vivo ego - e per conseguenza opero - jam non ego; vivit vero - e per conseguenza opera - in me Christus»”. (Lett. alla Naudet del 26 sett. 1813).

Ecco un altro testo, tolto da un discorso rivolto a sacerdoti, quindi redatto in un linguaggio molto più preciso, scolastico, impegnativo. Esso mette in chiara evidenza il principio filosofico da cui il Bertoni deduce la sua teoria del completo, perfetto, continuo abbandono in Dio. “Iddio è nelle sue creature: non solamente dà loro il potere di operare, ma Egli opera più delle medesime, operando come causa principale. Di modo che è più Dio che risplende nel sole, che il sole medesimo; che riscalda nel fuoco, che il fuoco medesimo; che nutre nelle vivande, che le vivande medesime. Quando voi sentite i buoni effetti delle operazioni di queste creature, per esempio la bellezza della luce, la comodità del calore, il gusto delle vivande, voi dovete attribuire tutto questo a Dio e non già alle creature: e riguardare ch'egli è più Dio che vi fa il bene che le creature”.

Da un altro discorso a sacerdoti: “Qual felicità! Che beatitudine di un sacerdote così bene ordinato, che d'ogni cosa si servisse di scala per ascendere a Dio! Questo dovrebbe essere la sua vita: «Ambula coram me et esto perfectus» (Gen. 17, 1). Questo spirito di fede, questa visione del tutto soprannaturale a riguardo d'ogni cosa, è strettissima conclusione logica tratta dai primi principi, tratta da quella metafisica, che spazia al di là di questo e di ogni altro mondo sensibile.

Ecco un altro testo ancora: “Né il vostro intelletto avrebbe mai potuto condurvi all'atto di pensare alla menoma cosa, né la volontà a desiderarla, né l'occhio e l'udito e tutti gli altri sensi a rappresentarla: così non avreste neppur potuto mai muovere il piede, alzare il braccio, condurre la mano, se Egli insieme con voi non li avesse mossi, e sostenuti, e guidati. Tale è quella certissima, necessaria dipendenza, nota ancor ai filosofi, che hanno le cause seconde dalla prima cagione del loro essere nel produrre anche le proprie e naturali operazioni. Perciò ben disse San Paolo: «In ipso vivimus, movemur et sumus» - Atti 17, 28.” (Predica del 31 Dic. 1803).

Qui il linguaggio sembra più duro ed acerbo, ma vi è tutta la sostanza degli altri testi. Il frutto acerbo infatti, è quello stesso che maturando si dolcifica, si abbellisce e rapi­sce gli sguardi golosi. Il passaggio da questi primi principi, solidissimi ed inconcussibili, alla conclusione pratica di dovere mantenersi sempre rispettosissimo dell'azione divina in se stesso e fuori di sé, è breve e facile, anche se la sua attuazione continua e costante richiede la pratica simultanea di tutte le virtù.

Nel suo Memoriale Privato annotava il Bertoni: “Operare puramente per istinto di natura, anche per un solo istante, egli è un impedire che Dio operi, e fare che operi la creatura”. (MP 15 luglio 1808).

Disavvezzarsi dal fare la volontà propria ed ogni cosa fare come mossi dalla volontà di Dio, affine di piacergli ed onorarlo” (MP 16 luglio 1809).

Pochissimi sono coloro i quali intendano quello che Dio farebbe di loro, se egli non fosse ai suoi disegni impedito” (MP 18 aprile 1811).

Quest'ultimo pensiero lo ha preso dalla vita di Sant'Ignazio, e così lo commenta in una predica ai chierici del Seminario: “Non possiamo pensare cosa Iddio farebbe di noi e quanto opererebbe in noi, che siamo le pupille degli occhi suoi, se non mettessimo ostacolo alla sua grazia, ma ci rimettessimo liberamente e totalmente in sua mano”.

Agli esordi di questa nostra epoca moderna sta l'Umanesimo, che è abdicazione del divino per la sostituzione dell'umano; sta il Cartesianesimo, sta il positivismo di Spinoza, e stanno tutti gli altri filosofismi che pretendevano di essere ortodossi, e volevano assolutamente essere non scolastici, non legati alla filosofia perenne. Due cose incompossibili, perché non ci possono essere due verità: una vecchia e una nuova.

Il Bertoni, nutrito di purissimo tomismo, di tomismo integrale, non sentì in sé il disagio di dottrine incompossibili; non rimase incerto di fronte alla sfrontatezza delle affermazioni rivoluzionarie: le condannò sempre, recisamente, talora anche in modo salace. Come il giansenismo, così il febronianesimo (dottrina del predominio della società civile su quella ecclesiastica) lo ebbe sempre netto, implacabile e valido oppositore.

Fu ammiratore ed amico del La Mennais e del Rosmini, ma quando li vide deviare, non ne subì alcuna lusinga; la solida base su cui era fondata tutta la sua costruzione mentale e spirituale, lo garantiva da qualsiasi oscillazione.

Tutto questo discorso, tutti questi richiami sono posti qui per dire che la dottrina ascetica del Bertoni è confezionata con la più pura farina delle dispense della Chiesa, e quindi ci può e ci deve ispirare piena fiducia.

Se egli supera ed allarga (forse si direbbe meglio "allunga") la dottrina abituale della conformità alla volontà di Dio; se dal campo passivo per l'anima, la estende anche a quello in cui l'anima deve mostrarsi attiva, lo fa con buonissime ragioni e solidi fondamenti.

Secondo l'insegnamento del Bertoni, l'abbandono in Dio di fronte alla di Lui volontà di beneplacito è la parte prima ed inferiore; mentre l'abbandono in Lui quando pure si agisce per obbligo e per dovere, è la parte superiore e più perfetta.

Tutto ciò richiede: 

1) Vivissimo spirito di fede per tenere la mente sempre chinata alla presenza di Dio - Ambula coram me! - Il Bertoni per questo motivo andava spesso a capo scoperto, anche per le vie della città. 

2) Richiede profonda umiltà, per non sopravalutare sé stessi, le proprie facoltà, la propria libertà. 

3) Richiede mortificazione, per saper raffrenare la propria attività naturale. “Non bisogna mai prevenire la volontà di Dio” diceva spesso il Bertoni, ed era un suo fermo principio in cui è condannato tutto l'attivismo naturalista ed esasperato dei nostri giorni. 

4) Richiede completo distacco da quello che si fa, e ci riesce; anche quando si tratta proprio della gloria di Dio, perché diceva il Bertoni: “Il Signore si serve alle volte di alcuni suoi ministri per manifestare al mondo i suoi disegni, ma nella esecuzione poi si serve di altri”. 

5) Richiede...

Ma basta! Poiché non la finiremmo così presto, e invece dobbiamo essere brevi. I soli quattro punti già indicati bastano a fare comprendere l'alto grado di depurazione, di distillazione, delle dottrine ascetiche insegnate e delle virtù praticate dal Bertoni.

Vogliamo fare un paragone con un termine di confronto moderno, per rendere più accessibile il pensiero del Venerabile.

La via dell'infanzia spirituale, della confidenza, del completo abbandono in Dio, insegnata da S. Teresa del Bambino Gesù in che rapporto sta con la dottrina del Bertoni?

Rispondiamo subito: vi è contenuta.

La dottrina del Bertoni è più dichiarata, analizzata, ordinata in sistema, come si conveniva a un teologo del suo valore e della sua cultura; Santa Teresa, ammaestrata dallo Spirito Santo, ha insegnato e detto le stesse cose, ma in modo sommario e comprensivo, come si conveniva alla sua semplicità e al suo sesso.

La mela contiene in sintesi tutti gli zuccheri, che la scienza e l'analisi vi sanno scoprire. Da ciò non segue però che la scienza e l'analisi siano cose inutili.

Il Bertoni non scrisse nessun trattato di questo genere (come del resto nemmeno S. Teresa del B. G.), ma dalla sua corrispondenza e dai suoi discorsi risulta che questa dottrina era ben chiara, ben netta e radicata nel suo spirito.

Le virtù cristiane, quando sono veramente tali, ossia soprannaturali, e raggiungono un grado elevato, si richiamano l'una con l'altra e si dimostrano immanenti, facendosi equilibrio.

Non vi può essere in qualche Santo una virtù talmente forte ed eroica, che non sia nello stesso tempo umile e semplice. Se vi fosse, non sarebbe virtù cristiana, ma stoica, buddista o altro.

Al giorno d'oggi bisogna stare attenti moltissimo, perché moltissima mondiglia viene venduta e scambiata per oro puro. Un pelagianesimo di origine protestantica ed anglosassone (anche il Pelagio del IV secolo era un inglese) inquina ogni pratica, ogni dottrina.

Come una tabe, nascosta, sconosciuta e non avvertita, rende sterile e sempre più deteriore questo nostro mondo occidentale (laicismo), una volta integralmente cristiano.

Tutta la vita e la dottrina del Bertoni è una irrefragabile protesta e confutazione di questa congerie di errori, che con la rivoluzione francese pretesero clamoroso, indiscutibile ed universale diritto di cittadinanza fra le nazioni cristiane.

Tornando ora al Bertoni e a Santa Teresa, si può vedere nei testi già riportati come non solo nei concetti, ma anche nelle espressioni stesse, essi collimino.

Specialmente in quello dove l'immagine del bambino non ricorre (quello che comincia con le parole “Li difetti nostri...”) la dottrina di Santa Teresa del B. G. è centrata in pieno: conoscenza della propria incapacità, conoscenza della Bontà e Onnipotenza divina, e da queste due conoscenze “è forza e dovere che insieme con l'umiltà cresca la confidenza”.

Non possiamo concludere questo capitolo senza riportare un altro testo (molto più numerosi sono quelli che tralasciamo), che con finissima grazia dice le stesse dottrine sopra notate, e ravvicina sempre più il Bertoni a Santa Teresa anche nelle espressioni.

La madre mostra talvolta al suo figliolino un pomo nella sua mano. Si mette subito in festa e allegrezza questo suo figlioletto al vedere la bellezza di questo frutto, all'immaginare la sua dolcezza; ma tosto si cambia la letizia in tristezza, la gioia in pianto, non potendo egli raggiungere, per quanto alzi le mani, la destra materna che sopra gli sta scherzando.

Che fa egli pertanto per averlo? Si stringe alla madre, e a lei non cessa di domandarlo. Così l'ottiene”. (Lett. alla Naudet. 1° Dic. 1812).