Capitolo X

IL VOLGERE DEI TEMPI 

Se il Bertoni in tutta la sua vita non avanzò mai nessuna richiesta alle Autorità per ottenere l'approvazione del suo Istituto, ciò va attribuito alla durezza dei tempi.

È un'ipotesi che già abbiamo avanzata per spiegare il suo costante rifiuto di fronte alle insistenze dei suoi figli fatte in questo senso.

È un'ipotesi, ma vi sono dei buoni fondamenti per sostenerla.

Scrive uno dei biografi, P. Fiorio: «Il Governo di Vienna voleva reggere a suo piacimento e senza alcun controllo gli ordini religiosi; assai difficilmente approvava un nuovo Istituto, che avesse case aperte in altri Stati, e dipendenti da un'autorità centrale. Soprattutto poi vedeva di malocchio la dipendenza che gli Istituti religiosi professavano alla Santa Sede.

Ora l'Istituto della Naudet era modellato sulle Costituzioni di Sant'Ignazio, tutte ossequio e fedeltà alla Sede Apostolica.

Il nome di S. Ignazio - scriveva Don Gaspare - e delle sue Costituzioni, come produrlo ora che sento che sono in pericolo nuovamente i gesuiti della Galizia?” (1825 - Lett. 87).

Egli dunque suggeriva di preparare un progetto “che non facesse ombra di quello che è in fondo, e da cui è preso”: e se questo non fosse possibile, suggeriva di apparecchiare tutto il necessario per un tempo più propizio.

Aver alcun rescritto o lettera dei Sovrani presenti, o del Vescovo, che mostrasse compiacenza, approvazione, incitamento, e del resto pregare aspettando (come i discepoli del cenacolo)  il momento di uscire”.

Già altri fondatori di Istituti avevano domandata l'approvazione al Governo di Vienna, fra cui la Signora Campostrini, la quale anzi aveva ottenuto segretamente da persone del Governo "un estratto di Decreti e di Leggi di Sua Maestà, onde potesse abbozzare il suo progetto in modo che non dispiacesse al Governo, e non fossero fatte altre domande fastidiose e difficili".

E da principio sembrava che le cose procedessero bene, e che in breve tempo ella avrebbe ottenuto il Decreto di approvazione, il che sarebbe stato un incoraggiamento e un indirizzo anche per Leopoldina; ma poi tutto ad un tratto, non si sa come, ogni cosa restò sospesa. Don Gaspare tornava a raccomandare prudenza e circospezione.

Adesso siamo in tempi che, poco essendo le più grandi cautele, bisogna più che mai andar seguitando le orme della Provvidenza Divina che ne precede. Soprattutto è necessaria orazione, diligenza, speranza ed umiltà, perché gli umili e mansueti di cuore Dio si reca in braccio come una madre, e li porta fuori dei pericoli”.

Quanto spirito di fede! Quanta umile sottomissione in queste anime sante (Don Gaspare e Leopoldina) di fronte ad una oppressione ingiusta ed iniqua, in ciò che essi avevano di più caro e di più sacro: la vocazione e il mandato divino di essere fondatori!

Come trionfa anche qui il continuo, perfetto abbandono fra le braccia di Dio!

Continua il P. Fiorio: “Nel 1828 si fece ricorso ai Sovrani che si mostrarono favorevoli, ma non vi era da illudersi”.

Il povero conte Cavanis - aggiungeva Don Gaspare - mi ha raccontato che aveva cinque o sei decreti dell'Imperatore, e con tutto ciò ora il Governo gli ha messo a terra ogni cosa, ed è ritornato a Venezia con alcuna speranza, ma debole, d'essere rimesso”.

Oh! Onnipotenza del Conte Metternich!

E dire che era appena al suo tredicesimo anno di dispotismo (ne avrebbe goduti altri venti) e l'Imperatore era allora Francesco I, tenace e volitivo, e non l'imbelle ed incapace Ferdinando I, che regnò dal 1835 al 1848!»

Queste due pagine prese dalla Vita scritta dal P. Fiorio illustrano chiaramente quale fosse la situazione politico-religiosa nel Regno Lombardo-Veneto sotto la domina­zione Austriaca.

E fu così fino a che il Bertoni visse, ed anche dopo.

Le poche concessioni che Francesco Giuseppe si lasciò strappare dai suoi sudditi tedeschi e non tedeschi, furono ben poca cosa: il minimo indispensabile; il '48 così famoso ancora adesso non riuscì a fendere i panni del legalismo tedesco: vi aperse appena qualche scucitura.

Di tutti i Nunzi Apostolici sparsi allora per l'Europa e per il mondo, ben poco o nessuno era così vigilato, impacciato e custodito, quanto quello residente a Vienna. Sua Maestà Apostolica si credeva in diritto e in dovere di vigilare  anche  sulla  Santa Sede, sul suo delegato presso la Corte, e sulle relazioni che correvano fra di loro. Ogni corrispondenza doveva essere controllata.

E dicendo questo non si esagera minimamente, non si vuole fare dell'ironia di cattivo gusto, senza scopo: si vuole solamente mettere in evidenza la pressione asfissiante in cui erano costrette a vivere le anime più sante, dedite solo ad opere celesti, che avevano la sfortuna d'essere sudditi della Casa d'Asburgo.

Nella storia è rimasto famoso il gallicanesimo dei francesi e di Luigi XIV, ma il regalismo, il giuseppinismo, il febronianesimo tedesco fu cosa ben più massiccia e duratura!

Giuseppe II gli conferì la nota del ridicolo, e sotto questo aspetto gli legò il suo nome, ma non si deve credere che fossero le cose da poco le spoliazioni, le soppressioni, le estorsioni, gli inquadramenti di tutti gli ecclesiastici, secolari e religiosi, ivi comprese le monache, da lui perpetrati nei venticinque anni del suo impero!

Prima di lui le avevano attuate suo padre e sua madre: Maria Teresa e Stefano di Lorena; e dopo di lui le proseguirono tutti i suoi successori.

L'Austria, la cattolicissima Austria, è stata sempre cesaropapista della più limpida acqua, della più sicura e tran­quilla coscienza. La religione, nella sua struttura ecclesiastica e mo­nastica, è sempre stata per l'Austria uno strumento di Stato, e tale doveva essere secondo i suoi principi.

Quindi nessuna incertezza, nessuna esitazione, nessun rimorso da parte dei suoi governanti.

Purtroppo, bisogna aggiungere, nemmeno da parte dei gover­nati, che troppo facilmente, troppo costantemente, si adattavano alle prepotenze di Stato.

A scusa degli uni e degli altri, bisogna onestamente notare che la dottrina «De fide catholica e De Ecclesia Christi» noi l'abbiamo nitida e squillante nelle due Costituzioni del Concilio Vaticano I (1870): «Dei Filius» e «Pastor Æternus» e nei canoni in cui sono riassunte.

A quei tempi, invece, le idee in proposito erano molto confuse, e non solo in Austria e nell'Impero germanico, ma dappertutto.

I Borboni di Napoli, col loro Bernardo Tanucci, erano regalisti ed invadenti quanto e più degli Asburgo. Il Tanucci era toscano di origine e di cultura. I Savoia, in Piemonte ed in Sardegna, lo erano un po' meno, ma lo erano anche loro; anch'essi accettarono la proscrizione dal calendario liturgico della festa di San Gregorio VII.

I francesi erano gallicani; gli spagnoli, sotto gli Asburgo anteriori, furono sempre di gran peso alla Chiesa; gli inglesi diventarono apertamente ribelli ed eretici.

Ci volle un travaglio di quattro secoli per arrivare dal Concilio Tridentino a quello Vaticano I. Ed è necessaria la pena e la fatica di molte generazioni per arrivare alle formule precise e lapidarie.

Della Costituzione circa la dottrina sulla Chiesa il Concilio Vaticano I poté pubblicare solo la seconda parte, quella che tratta del Romano Pontefice; la prima è rimasta negli schemi. Dovrà essere ripresa in un altro Concilio.

Gli avvenimenti storici del 1870 (guerra franco-prussiana; la Comune di Parigi; l'occupazione di Roma) obbligarono i Padri a concludere in tronco i loro lavori.

Ora, perché nessuno creda che noi qui divaghiamo fuori del nostro campo, vogliamo ricordare le duemila pagine in ottavo grande, circa la dottrina sul Romano Pontefice, tutte manoscritte del Servo di Dio, in modo così nitido e chiaro da fare invidia alle più moderne macchine da scrivere.

Per raccogliere tanto materiale, egli deve averne studia­to al­meno dieci volte tanto, e la sola fatica materiale della trascrizione è una prova grande del suo affetto e amore alla Chiesa, della sua devozione al Papa, quando tutto il mondo, ed anche moltissimo clero, erano contro il Vicario di Cristo.

Mentre Pio VII era prigioniero di Napoleone, egli diceva predicando ai chierici del Seminario: “La docile sommissione al Sommo Pontefice è l'ultima conferma che l'elezione a cui siamo mossi è da Dio”.

E alla Naudet scriveva: “Ascoltiamo Cristo e il suo Vicario, e se restassimo anche soli con Noè, che restò «solus contra omnes», noi pochi e soli ci salveremo entro l'Arca, fuori della quale sappiamo non essere salute”.

Questa devozione al Papa, insieme alla grande fede, riverenza e piena dipendenza dai vescovi, egli la praticò in tutta la sua vita, e la lasciò come nota distintiva ai figli della sua Congregazione.

Così egli intendeva e praticava quell'articolo del Credo che dice: credo la Santa Chiesa Cattolica.

E si vede adesso quanto sentisse giusto e come prevenisse i tempi.

I grandi fatti della vita della Chiesa, prima di giungere a ma­turazione nelle formule e nelle decisioni, fermentano a lungo nelle anime più sante e più illuminate; riscaldate, irradiate e mosse dallo Spirito Santo.

Il Bertoni, poco prima di morire, esultò immensamente ai preannunci della prossima definizione dell'Immacolata Concezione di Maria SS. Se avesse potuto prevedere la prossima definizione dell'Infallibilità pontificia, ne avrebbe goduto anche di più.

La nostra Madre Santissima regna Beata in cielo, ma il Vicario del suo Divin Figlio qui in terra, il Capo visibile di tutta la Chiesa, era ed è assalito da tanti nemici, sbattuto da tante avversità, che il vederlo elevato sopra la comune fralezza umana è per noi di sommo conforto e consolazione, è per lui stesso garanzia ed incoraggiamento al suo alto ufficio.

Queste verità ora così chiare, assodate e definite, erano nel 1600, nel 1700 e nella prima metà del 1800 molto con­fuse ed incerte.

La colluvie di errori, di bestemmie, di ribellioni scatenata dal protestantesimo sconvolse fin nel profondo lo stesso diritto naturale, e la società civile raccoglieva ai tempi del Bertoni gli amari frutti di tre secoli di eresia e di apostasia.

Il Bertoni, uomo di fede e di intelligenza profonda, di cultura vastissima e solidissima, poteva e sapeva misurare la profondità degli abissi in cui si erano precipitati e in cui ci si dibatteva; sentiva nell'animo suo l'oppressione continua degli opposti errori, ugualmente empi e deleteri.

Quando in Francia comparve la meteora del La Mennais, che con vivezza incredibile investì per un momento tutte quelle latebre infernali (Saggio sull'indifferenza in mate­ria di religione - volumi 4 - 1818-1823) egli esultò e tripudiò: sentì il cuore aprirsi alla speranza.

Purtroppo, quella doveva essere solo una meteora passeggera, e la fine desolata di quell'uomo fu per il Bertoni un immenso cordoglio.

Quando egli, giovane diciottenne, iniziò il corso di teologia al Seminario di Verona, il Papa Pio VI aveva allora solennemente condannato il Sinodo di Pistoia (Costituzione: Auctorem Fidei del 28 agosto 1794).

Tenuto da quel vescovo Scipione De Ricci coi suoi canonici e coi suoi preti, era risultato una completa raccolta di errori e di affermazioni protestantiche, compilata per uso degli italiani. Vi si spropositava circa la dottrina sulla Chiesa, sulla giustificazione e redenzione, sui sacramenti; circa la dottrina e le pratiche del culto, circa la vita religiosa e monastica. I prin­cipi nazionalistici dei gallicani vi erano ricalcati con tanta forza, da far torto ai gallicani stessi, secondo l'affermazione del Papa.

Questa sorte di conciliabolo era stato tenuto col pieno favore ed appoggio del Duca Leopoldo (il padrino della Naudet), che poi divenne imperatore d'Austria e Germania.

Il Bertoni sentì certamente commentare in modo molto amaro quel pronunciamento da parte di uomini ecclesiastici, che concordava troppo con quanto stavano facendo i rivoluzionari e i terroristi di Parigi.

Il teorico del regalismo tedesco fu Giangrisostomo Nicola Hontheim, giurista dell’Università di Lovanio, Rettore del Seminario, Vicario Generale, e poi Vescovo di Treviri per quarant'anni. Nato nel 1701 morì nel 1790. Scrisse la sua opera più pestifera (1763) sotto lo pseudonimo di Giustino Febronio, falsando anche il nome dell'editore e quello della città dove il libro veniva pubblicato. Più in mala fede di così non poteva essere!

Aggredito dalla difesa cattolica dovette alla fine svelarsi e cercare di difendersi, fingendo di attenuare le affermazioni più spropositate.

Avendo inviata a Roma una ritrattazione (1778), Pio VI si mostrò con lui molto buono, poiché aveva promesso di confutare lui stesso le proprie pubblicazioni antecedenti.

Invece il suo ultimo scritto (1781) riuscì un miserabile e tortuoso compromesso tra la verità che si imponeva e l'orgoglio che non si rassegnava a confessarsi sconfitto, capolavoro di restrizioni e di reticenze bugiarde! E questo a ottant'anni suonati, capite?! Da parte di uno che da trent'anni era vescovo cattolico in una regione cattolica, quale la Renania e Belgio, allora uniti sotto il nome di Lorena. 

Questi furono gli uomini e i tempi che generarono i tempi posteriori di cui noi siamo i fortunati eredi! Se così la pensavano gli ecclesiastici tedeschi, cosa volete che pensassero i loro principi e sovrani?

Proprio mentre Pio VI era in viaggio per Vienna, il canoni­sta Eybel pubblicò un libello a commento dell'opera dell'Hontheim sotto il titolo: “Cos'è il Papa?”. E Giuseppe II approfittò della presenza del Papa a Vienna per mancargli ancor più di rispetto, non solo non concedendogli nulla di quello che era venuto a chiedere, ma contraddicendogli maggiormente con più dure disposizioni in materie ecclesiastiche.

Ci sono degli autori tedeschi che si vantano dell'incontro di Vienna come di una rivincita dell'antica umiliazione di Canossa!

Francamente fra Giuseppe II che trattò Pio VI in questo modo, e Napoleone che quindici anni dopo lo fece morire in prigione a Valenza, noi non sapremmo chi scegliere. Forse il secondo riesce meno odioso del primo.

E queste cose il Bertoni le sentì, le vide, le visse.

La sua profondissima venerazione al Papa è una condanna e una reazione a questi modi di fare e di pensare.

Eppure, vedete come sono i santi, come sanno fare bene ogni cosa, come sanno risolvere ogni problema.

Passato dal dominio veneto a quello napoleonico, e da quello napoleonico a quello austriaco, quando tutto il mondo andava a catafascio e ciascun uomo stimava di avere per conto proprio più di mille motivi per fare il rivoluzionario ed il cospiratore, il Bertoni si mostrò sempre fedele suddito dell'autorità costituita.

In particolare ai sovrani tedeschi lui italiano volle sempre molto bene.

Si racconta che ogni giorno mandava loro la sua benedizione dalla finestra del suo convento. Non mancò in questo al suo dovere verso la sua nazione? No certo. Non spettava a lui fare il rivoluzionario, quando troppi e troppi lo facevano con immenso danno della causa per cui dicevano di combattere e di sacrificarsi.

Solo menti oscurate ed incapaci di giusto giudizio potevano avallare tutta l'immensa congerie di errori e di delit­ti, che si pretendeva di giustificare col nome sacro della patria.

Nei moti nazionali del secolo scorso (in tutta l'Europa e nel mondo, non soltanto in Italia) le mosche cocchiere intente a diffondere l'infezione del loro pensiero ateo ed eversivo, furono molto più numerose dei veri eroi. Il Bertoni non poteva certo approvare le teorie eretiche ed anticattoliche dei suoi governi austriaci, ma non poteva negare loro un giusto ossequio civile, essendo essi le autorità legittime costituite.

Del resto, se si vogliono proprio conoscere i meriti pa­triottici del Bertoni e dei preti delle Stimate, si può ricordare che due di essi patirono angosciosi giorni di carcere e rischiarono di essere fucilati, quando nel 1848 i piemontesi arrivarono fino a Verona (5-12 luglio 1848); dal 1850 al 1854 il pianterreno del convento delle Stimate fu occupato da truppe tedesche.

Questo tributo di dolori e di sofferenze fu loro imposto dalla causa nazionale italiana.

Per riassumere in breve quanto siamo venuti dicendo, concluderemo con due citazioni, tratte dal giudizio scritto che il Bertoni dovette dare su uno scritto sottoposto dai Superiori al suo esame. Il titolo del libro era: «Studio filosofico della religione». Si ignora chi ne fosse l'autore.

Nelle due citazioni che stiamo per fare il Bertoni ci dice nella prima il suo punto di vista sul cartesianesimo e sui sistemi filosofici che portarono alla rivoluzione; nella seconda ci dà il suo giudizio circa le teorie politico-sociali di Gian Giacomo Rousseau.

Egli suggeriva di fare alcune modifiche: “E ciò anche perché non si introduca nella religione il sistema cartesiano seguito da molti nelle scienze naturali, cioè di cominciare a dubitare di tutto; per mettere a forza del suo proprio raziocinio ogni cosa in essere e a suo luogo: il qual principio, mettendo in mano la verità e come a discrezione del giudizio particolare di ciascun uomo che ragiona ed ergendosi nella sua testa un tribunale indipendente da ogni autorità e inappellabile, ha dato luogo prima al protestantesimo, e poi all'incredulità, come ora è conosciuto dai più illustri filosofi e teologi”.

Ecco il secondo testo circa le teorie del Contratto Sociale: “Questo non è altro che una bella chimera di Gian Giacomo Rousseau, la quale ha prodotto tutte le rivoluzioni e le sta producendo al presente (1825) nelle teste ingannate dai raggiri di quel gran seduttore. L'esperienza ne deve aver aperti gli occhi. L'uomo si trova in società prima d'aver sognato verun patto. E Adamo era principe sovrano di tutti gli uomini prima che gli uomini fossero in caso di far contratti con lui o di impor a lui delle costituzioni a re­stringere la sua autorità sovrana.

E così ciascun padre è naturalmente capo e Signore in casa sua prima che i suoi figli possano contrattare con lui.

O vorrem noi predicatori di Dio rinnovar le pazzie e le frodi dei rivoluzionari, della libertà e della uguaglianza, e dei sognati diritti dell'uomo e del popolo sovrano? Basta guardare un bambino come entra nel mondo e come vive per alcuni anni, per vedere se l'uomo è per natura indipendente, che ha bisogno perfino che la madre gli metta il latte e gli alimenti in bocca: e tanto egli è poco sovrano in questo mondo che non sa nemmeno di esservi; insomma non vi è società senza ordine, né ordine senza subordinazione, né subordinazione senza potere, e «omnis potestas a Deo» - grida San Paolo. E «per me» dice la Sapienza divina «principes regnant» non per li contratti né per le costituzioni dei popoli”.

A proposito dei moti rivoluzionari soleva dire: “La rivoluzione è uno dei più grandi peccati, e il più grande di tutti, perché in sé ne contiene di tutti le conseguenze”.

Per quanti al giorno d'oggi parlano a getto continuo e a vanvera di democrazia, di uguaglianza e di indipendenza, ecco qui alcune considerazioni molto semplici e chiare, ed altrettanto solide ed inconfutabili.

Ah! L'assolutista!” - Grideranno. Ma, poveretti loro, per sostenere le loro teorie non possono avanzare una sola considerazione che abbia un valore pari a quello che hanno queste.