IN CINA - HONG KONG - 2 dicembre 1932.

Dopo tre giorni di burrasca il mare ritorna calmo, ed il sole si presenta all’orizzonte con intenzioni meno feroci: siamo passati dal caldo al freddo quasi immediatamente. Questo non importa. Si vede oggi un'altra cosa, una cosa nuova, una cosa desideratissima, una cosa che è un immenso paese, la Cina.

Ormai ci siamo, ci siamo. Le prime isole della Repubblica Celeste sono dinanzi al nostro sguardo, e tra tutte un'isola, lì vicino, che ci ricorda un santo, morto benedicendo questa povera nazione, Sanciano S. Francesco Saverio, un'isola, che ci inumidisce la pupilla e ci strappa un palpito dal cuore. Non abbiamo terminato ancora il nostro viaggio, ma siamo a buon punto, siamo in Cina, siamo dove ci vuole il Signore, dove forse troveremo anche la nostra tomba. Evviva la Cina. E mentre ci si perde in tali sentimenti, ecco un'altra cosa vi si presenta dinanzi allo sguardo: un’infinità di barche a vela, di una forma speciale e strana: sono le famiglie dei poveri pescatori cinesi; ho detto le famiglie, ma avrei detto meglio le case. In queste barche nascono e vivono e muoiono. Che vita infelice devono condurre, piena di stenti, piena di pericoli: sempre in mare esposti a tutte le intemperie, avventurati a tutte le morti; la più frequente è quella prodotta dalla fame, e causata dalla burrasca: tantissimi periscono in questo modo, perché si arrischiano troppo, vanno in alto mare, escono alla pesca anche se il tempo non è bello, viene il terribile tifone e li spazza via tutti.

Arrivammo ad Hong-Kong verso il mezzogiorno. Il porto è bello, tutto circondato da isolette; la città appare sul fianco di una bella collina, come un anfiteatro. Nel porto ciò che vi colpisce subito, è la flotta, lì tutta al completo, pronta a sparare i suoi grossi cannoni, pronta a muoversi a un solo cenno. Vedete la pesante corazzata, quieta nella sua maestà, la nave ammiraglia, come una regina circondata dai suoi cari e furbi figliolini, voglio dire i sottomarini, i soldati che corrono qua e là.

Scendemmo a terra insieme ad un Padre Saveriano, tanto buono e gentile, egli si fermerà qui dove è destinato; e intanto ci farà vedere il suo collegio e un po' di città. Sulla banchina assistemmo allo strano spettacolo offerto da un facchino cinese, un litigio; cosa ordinaria e umana e che non merita di essere notata se non per la maniera ridicola con cui si manifestava. Tanta era la rabbia che aveva in corpo, che non era più capace di parlare, e in conseguenza si doveva accontentare di esprimere la sua ira soffiando peggio di un gatto. La città è bella, tutta cinese, con tutti i costumi cinesi. Per via vedemmo uno sposalizio, con il suo lungo e stranissimo corteo, formato da gente vestita bizzarramente in rosso, con le maschere più mostruose che si possono immaginare, gli idoli, gli animali simbolici, il dragone, le lettighe infiorate degli sposi, musica di pifferi e tamburi, armonia che fa venir la pelle d'oca solo a sentirla da lontano. Ripartimmo nel pomeriggio.