Capitolo VII

ALLA SCUOLA DI DIO 

Le sofferenze fisiche causate da malattia impressero alla vita del Bertoni una spiccatissima nota di santità: la pazienza nelle tribolazioni.

Quest'uomo che visse settantasei anni, ne passò trentacinque in buona salute, trenta tra dolori lancinanti, si può dire appena interrotti di quando in quando e il resto con parecchie gravi malattie.

Di questa azione diretta di Dio su di lui egli fece gran profitto, e soleva chiamarla, col sorriso sulle labbra, "la scuola che si degna farmi il Signore", ed aggiungeva umilmente: "Preghi per carità, ché io ne cavi frutto, sì che mi disponga a servirlo". (Lettera alla Naudet n. 45: 1/6/1814).

A due professori del Seminario andati a visitarlo durante le sue ultime sofferenze diceva lepidamente: "Ecco, siamo qui alla scuola".

Queste espressioni, questi modi di prospettare le cose, proiettano i fatti della più povera, della più bassa umanità sullo schermo del cielo.

La leggera lepidezza, la giocondità, la serenità nel sapersi fra le mani di Dio anche quando lo spasimo trafigge le carni, sono tale prova di santità, che non teme smentita.

"L'infermità è la prova dell'uomo" soleva dire egli stesso, e noi, a buon diritto, applichiamo a lui questo criterio. La storia biblica del Santo Giobbe ce ne autorizza in pieno.

Il Bertoni merita certo di essere numerato tra gli eroi della pazienza, e secondo la parola della Scrittura: "Patientia opus perfectum habet". (Giac. 1, 4).

Non volendo qui dilungarci in apprezzamenti ascetici e morali, ci limiteremo a ricostruire una cartella clinica, che serva di base per gli apprezzamenti e le considerazioni.

Le testimonianze degli storici sono abbastanza copiose per il lato, diremo così, ammirativo e morale; ma sotto l'aspetto medico sono formulate in un linguaggio così ingenuo e improprio, che, più che dedurre di che malattia si trattasse, siamo costretti ad indovinarlo.

"Era Don Gaspare di statura più bassa un poco della mezzana, dice il primo biografo (1858) Don Giacobbe, ben complessionato e sano (prima che la miliare ne guastasse gli umori)  ancorché temperato, gentile e di senso delicatissimo".

Una personcina ben proporzionata e sana nel suo complesso, ma di salute delicata e di sensibilità acuta.

Tale fu Don Gaspare fino ai trentacinque anni.

Della sua infanzia e della sua giovinezza non si ha notizia che abbia sofferto malattie.

Dai genitori ebbe una sorellina, che all'età di quattro anni (1787) fu portata via dal vaiolo, ma lui non ne fu attaccato. I genitori morirono ambedue oltre i sessant'anni; la madre, forse, non era tanto robusta, essendo sempre stata molto casalinga e quieta; per il padre invece si dovrebbe pensare il contrario: le bizzarrie del suo carattere fanno supporre "una ricchezza di umori" proporzionata.

La prima malattia grave Don Gaspare l'ebbe nel 1812.

I biografi la mettono in relazione con gli strapazzi subiti andando a San Giuseppe, per assistere le malate e moribonde del Ritiro Canossa, e con le nottate passate là coi panni bagnati addosso. Fanno il nome di migliare o miliare, che sarebbe il nome antico della polmonite ed anche della tubercolosi, nome che ora si riserva alla tubercolosi polmonare a piccoli nodi diffusi, nodi che rassomigliano appunto a tanti granellini di miglio.

Come si debbano interpretare questi dati, non sappiamo con certezza.

Notando però l'insorgere improvviso e violento della malattia, la sua gravità attestata concordemente, ma più ancora il suo corso rapido e risolutivo e le successive ricadute; mettendo tutto ciò in connessione con le circostanze riferite si dovrebbe pensare trattarsi di una polmonite lobare franca anziché di una tubercolosi. La malattia infatti si ripeté tre volte, alla distanza esatta di dieci mesi una dall'altra.

Che si trattasse della stessa malattia noi lo deduciamo dalle espressioni pressoché identiche usate dai biografi; e siccome si sa che la polmonite lobare franca ha la caratteristica di ripetersi facilmente, così si deve dedurre che si trattava di polmonite e non di tubercolosi.

Superato il biennio 1812-1814 il Bertoni stette bene per cinque anni circa.

Dopo le tre polmoniti passate non doveva sentirsi molto robusto, ma lavorò intensamente e si mortificò assai.

Furono anni quelli di miseria e di vera fame, per cui, anche volendolo, non ci sarebbe stato modo di trattarsi bene. Per gli anacoreti poi, che proprio in quel tempo si raccoglievano presso l'Oratorio delle Stimate, furono anni di durissima, voluta penitenza.

Nel 1817 patì non lievi disturbi, contrassegnati da eruzioni cutanee, e per i biografi sarebbero state la continuazione delle malattie del '12, '13, '14. Un medico potrebbe forse pensare che la cucina del signor Paolo Zanoli, di professione tornitore e non cuoco, giovasse poco allo stomaco dei suoi amministrati.

In pericolo di vita si trovò ancora nel maggio 1819 e nel dicembre-gennaio 1821-22; questo per quanto consta a noi, poiché Don Bertoni non ebbe mai i segretari che altri hanno avuto. I biografi hanno raccolto con diligenza ogni cosa, ma le lacune potrebbero sempre darsi lo stesso.

Anche per queste due gravi malattie noi tendiamo a pensare che si trattasse di polmoniti.

Nei dodici anni che vanno dal 1812 al 1824 il Bertoni si trovò dunque cinque volte in fin di vita. In quel medesimo periodo di tempo passò la gran burrasca napoleonica, ci fu un biennio di intensissimo lavoro sacerdotale per le molte anime che tornavano a Dio (1814-1816), e poi, per lui, la fondazione delle Stimate: con la scuola da avviare, la chiesa da rifare (1817-1822) e il convento da fabbricare (1822-1828). Non si può pensare che dovesse essere una vita comoda e "sine cura".

Il nuovo clima civile e politico instaurato dall'Austria era di per sé una grande oppressione, ma per chi aveva in mente di dare vita a un nuovo Istituto religioso doveva essere ancora più scoraggiante di quello antecedente dei giacobini.

Vero è che la fede di quell'uomo scavalcava d'un balzo tutti quei pensieri degli uomini, e le parole di assicurazione divina lo mantenevano calmo e sicuro, ma tutto ciò non lo esimeva dal sentire la gravità della prova. Eppure, quella fede così depurata e cristallina, doveva ancora essere sottoposta alle sue prove maggiori.

Nel 1824 ebbe inizio per il Servo di Dio quella malattia che lo avrebbe tormentato sempre, fino alla morte: esattamente per ventinove anni.

Abbiamo già detto che gli diede sempre dolori lancinanti, quasi senza interruzione.

Per essere precisi bisognerebbe distinguerla da quella che di fatto gli diede poi la morte, e sulla quale non siamo informati.

La dichiarazione medica attribuirà il decesso a catarro senile. Ma questo non serve molto a chiarire la questione circa il terzo periodo di malattia del Servo di Dio, che fu tenuto in camera per undici anni (dal 1842) e sul duro giaciglio per trenta mesi (dalla fine del 1850) ininterrottamente.

Quello che è certo, invece, si è che la malattia che si manifestò nel 1824 non lo lasciò più, non ne guarì mai; ed i numerosissimi interventi chirurgici da essa richiesti causarono a Don Gaspare tali lesioni alla gamba, che praticamente si poté dire grande invalido, grande mutilato. Il male si manifestò acutamente nella gamba destra con un gonfiore diffuso, dove ad un tratto comparve un tumoretto più duro: tumore che, vane essendo riuscite le cure risolutive dei medici, dalla tibia dove era apparso, si propagò fino al ginocchio, invase quindi la coscia e provocò, anzi impose l'opera dei chirurghi.

Gli interventi chirurgici, nel periodo di quattro anni, assommarono a più di duecento, con più di trecento tagli o incisioni, abrasioni, raschiature, perforazioni (due) dell'osso, ecc. Cose tutte che fanno venire i brividi al solo pensarle, e che il Bertoni sopportò con perfettissima pazienza, con fortezza incredibile (allora non si conoscevano le anestesie di adesso), con ossequio assoluto e minuzioso a tutte le prescrizioni dei medici.

Sì, quest'ultimo della umile deferenza e della completa obbedienza ai medici è un carattere che va rilevato nella pazienza del Bertoni. Egli li riguardava con grande spirito di fede, ed obbediva loro con semplicità anche quando gli vietavano i suoi più cari esercizi spirituali: la santa Messa, la recita dell'Ufficio divino, e le altre preghiere di cui egli soleva riempire la sua vita. Nella volontà dei medici vedeva la volontà di Dio, e perciò vi si adattava con tutta semplicità.

Si deve notare che rimase degli anni interi senza poter celebrare la Messa; sacrificio straordinario per un uomo di tanta fede e fervore.

Ma infine, si vorrebbe sapere di che malattia si trattava. Sempre con le riserve più sopra accennate (i biografi parlano solo di «strano malore»), siamo del parere che si trattasse di osteomielite acuta recidivante.   

I caratteri del decorso: trafitture locali, febbri alte, spasimi, emissione di particelle ossee, la cronicizzazione del morbo, ci fanno propendere verso questa diagnosi.

La infiammazione acuta dell'osso dà tutti questi sintomi riferiti dai biografi, ed anche oggi è di assai difficile guarigione, se non si ricorre agli ultimissimi ritrovati della penicillina.

Non pensiamo che si trattasse di tisi ossea, perché la tisi ossea, pur avendo un comportamento simile, è spesso pressoché indolore e non dà febbroni.

Ora gli spasimi del Bertoni furono spesso atroci, e accompagnati da febbri anche molto elevate, precedute da brividi.

Noi crediamo che i medici di allora abbiano veramente fatto tutto quello che era possibile; che non abbiano sbagliato né la diagnosi né la terapia.

L'effetto pratico voluto dalla Provvidenza di Dio fu la santificazione del suo Servo. Lo rilevò anche il chirurgo principale, Dott. Luigi Manzoni, allora medico stimatissimo: "Mai vidi un paziente tale in tante operazioni da me fatte: io lo ritengo un santo".

E questa è la diagnosi che possiamo accettare senza alcuna esitazione.

Il male sembrò esaurirsi entro l'anno 1828; meglio si direbbe che si localizzò definitivamente.

Il Servo di Dio restò sempre un valetudinario ed un cronico;  con periodi di un certo benessere e altri, anche non brevi, di clausura in camera e a letto; fino a quella che il suo primo biografo fissò per l'ultima malattia: che secondo il suo calcolo fu di ben undici anni.