3. - Le Stimate

Le Stimate a Verona erano allora un piccolo gruppo di edifici cadenti: una chiesa, un piccolo oratorio annesso e altri cinque locali in tutto. La chiesa era stata costruita due secoli prima dalla Confraternita delle Stimate di San Francesco; nel 1807 era stata ingoiata dal fisco napoleonico, ed era stata trasformata in officina per maniscalco e per riparazione carriaggi delle truppe.

Nel 1813, agli 11 di ottobre, era stata riscattata dal fisco per opera del mugnaio Giuseppe Bellotti, uomo facoltoso e pio. Alla stessa data era pure stato riscattato il contiguo convento delle Terese, già appartenuto a suore di spirito carmelitano.

Un anno dopo, o poco più, il Bellotti aveva stabilito in quei luoghi pii, da una parte certe suore exclaustrate, dall'altra due sacerdoti secolari, perché facessero scuola gratuita alle fanciulle e ai fanciulli della strada.

Le sue beneficenze però dovevano avere un limite, ed anche la sua vita volgeva al termine. Morì santamente, fra atroci spasimi, il 27 luglio 1816, lasciando erede di quei luoghi pii il rev. Don Nicola Galvani, suo intimo amico e consigliere.

 

Don Nicola Galvani (1752-1823) era arciprete di San Giovanni in Foro, ed era stato professore di morale in seminario per venticinque anni. Là aveva conosciuto Don Gaspare e gli aveva fatto scuola, computandolo fra i suoi più cari discepoli. Ne era poi divenuto il confessore ordinario e il consigliere abituale, venendo messo a parte di tutti i suoi segreti propositi ed intendimenti.

Don Galvani aveva anche lui riscattato un ex convento presso la chiesa della Santissima Trinità (parrocchiale delle Stimate), e un altro ancora ne aveva ricevuto dal Bellotti, situato in parrocchia di Santo Stefano.

Con tutti questi beni fra mano e tante opere da sostenere si era sentito fortemente impacciato, ed aveva avuto come un momento di disperazione. Nel breve giro di tre set­timane però, doveva sistemare ogni cosa per il meglio, venendo a toccare con mano di essere stato (tanto lui che il Bellotti) solo uno strumento nelle mani della Divina Provvidenza.

Assegnò alla Naudet il Convento delle Terese; al Bertoni diede quello delle Stimate, perché vi continuassero lo scuole già avviate dal Bellotti, senza fare gravare su di lui questi oneri, a far fronte ai quali si sentiva impari.

Il Bertoni doveva assumersi l'incarico di fare la scuola gratui­ta ai figli del popolo ed insegnare il latino in favore di eventuali vocazioni ecclesiastiche.

Don Gaspare vide in quell'offerta un invito e un'indicazione divina e ben volentieri accettò.

Quei muri cadenti non potevano apparire, agli occhi del mondo, una base adatta per far sorgere una grande opera, ma chi è abituato a regolarsi con criteri e con principi divini non si abbandona a simili ragionamenti; non si pone simili quesiti.

Il Bertoni era già fortemente allenato nella scuola della povertà. Le malversazioni paterne lo avevano privato fino del titolo canonico richiesto per gli ecclesiastici, e che per lui era stato costituito "in bonis paternis".

Quel tanto che gli rimaneva della eredità degli zii Antonio Maria e Paola, non poteva essere molto. Anche a quei beni il padre aveva attentato più di una volta.

Applicando una sua massima e traducendo in pratica un suo proposito di alcuni anni prima, poté tuttavia trovarsi ugualmente a suo agio: "Per cominciare l'impresa bisogna aver fatto acquisto di grande eroica virtù. Capitale necessario è la povertà, e poi tutte le altre virtù". (Memoriale Privato: 23/1/1809).

Nel giorno successivo tra le virtù necessarie a muovere "una grande guerra all'inferno" aveva ribadito ancora il "distacco da tutte le cose, perché il demonio non abbia in che afferrarci".

Con queste armi divine egli diede principio all'impresa.

Il Galvani, dopo quella sistemazione provvisoria, pensò a quella definitiva, da farsi per testamento. Volle lasciare ogni cosa al suo Don Gaspare, sebbene questi vi si opponesse. Don Gaspare avrebbe voluto accettare solo le Sti­mate, ma il Galvani fu deciso e irremovibile. Volgendo ormai al termine della sua vita, non poteva trovare mani migliori di quelle di quel suo caro discepolo, per affidare loro l'esecuzione delle sue volontà.

E così "il buon nonno" (così lo chiamano gli stimmatini) visse pacifico ancora sette anni, tanto da poter vedere pienamente rifatta, restaurata e riaperta al culto quella chiesa, che allora più che luogo sacro era testimonianza di desolazione.

E qui si apre un'ampia questione, che dagli storici non ha avuto risposta. Dove prese il Bertoni i mezzi materiali per costruire le sue opere?

Per i primi restauri della chiesa, che certo costarono non poco, avrà concorso anche il Galvani: non è dimostrato, ma si può supporlo.

Ma per la costruzione del convento, che sorse dal 1822 al 1828, e che dovette costare più della chiesa; per il campanile con le sue campane; per tutta l'attrezzatura delle scuole; per il patrimonio che più tardi (1838) provvide per il suo Istituto, dove prese i mezzi economici?

È certo e dimostrato dai biografi con abbondanza di fatti, che mai il Bertoni accettò eredità, donazioni o offerte libere fatte da estranei ( il Poverello di Assisi gli regalò, insieme col nome per il suo Istituto, anche molto del suo spirito di povertà e di distacco); è certo ed attestato che i preti radunati alle Stimate, quando non facevano scuola ai ragazzi, si prestavano volentieri a fare da manovali a fianco dei muratori; è certo anche che l'ingegnere lo avevano in casa, ed era il sacerdote Don Gaetano Brugnoli, già soldato di Napoleone ed ingegnere militare, ma con tutto ciò rimane lo stesso la questione dei mezzi per l'acquisto dei materiali e per la paga degli operai.

 Ed è bene che gli storici non abbiano avuto la pretesa di dare una risposta, perché qui sta il segreto di autore, il segreto di Dio, il quale non ha costume di impiegare contabili e ragionieri.

L'avvedutezza e la capacità amministrativa, lo spirito di rigida povertà furono i canali attraverso i quali le benedizioni di Dio scesero e si fecero sentire.

Il convento è là, ben fatto, ben solido anche dopo i bombardamenti dell'ultima guerra mondiale; tirato su con larghezza di vedute, con gusto da ingegnere militare, proprio in vista di quella "piccolissima Compagnia" che doveva occuparlo, animata dallo spirito del soldato di Loyola.