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M. R. P. Camillo Cesare Bresciani

Prefetto dei CC. RR. Ministri degli Infermi 

 

 

ORAZIONE FUNEBRE

in morte

di

 

D. Gaspare Bertoni

Superiore dei Sacerdoti delle Stimmate

scritta e recitata il 17 novembre 1854


PREFAZIONE  

 

L’orazione funebre di P. Camillo Cesare Bresciani fu pronunciata la mattina del 17 novembre 1854, in occasione del “gran funerale” pubblico in suffragio di don Gaspare Bertoni, nella chiesa delle Stimmate. Era una giornata fredda e piovosa, poco invitante, eppure ci fu ugualmente grande concorso di gente e di quaranta sacerdoti che celebrarono le messe. La chiesa era addobbata di nero, con un grande catafalco; la messa solenne fu celebrata dal Vicario della diocesi, Mons. Marchi e animata dal coro dei Padri Filippini.

L’oratore ufficiale fu appunto il famoso P. C. Bresciani, accompagnato da numerosi Camilliani. A dire il vero il suo discorso non soddisfece molto i nostri Padri, se il Lenotti scrisse: “Si avrebbe voluto che fosse stato più concreto che astratto”. Il testo che possediamo fu pubblicato una prima volta nel 1855 con l’aggiunta di alcune integrazioni “concrete” e nuovamente nel 1866 in «Collezione di Orazioni funebri, scritte e recitate dal M. R. P. Camillo Cesare Bresciani», vol. II, p. 5-31.

 

La sepoltura di don Gaspare Bertoni

 

Dopo la morte, la salma di don Gaspare, in abito da missionario (fascia e crocifisso) come aveva prescritto, fu esposta dai primi Padri nell’Oratorio dedicato allora all’Immacolata Concezione, dove moltissime persone di ogni classe vennero a vederla. Le esequie furono celebrate il 13 giugno e non si procedette immediatamente alla sepoltura nel cimitero, ma, in attesa della conclusione delle pratiche per la sepoltura nella chiesa delle Stimmate, alla sera fu trasportata in processione nella parrocchia della SS. Trinità. Il parroco don Gaetano Giacobbe collocò il feretro nel locale mortuario, situato in un corridoio laterale della chiesa. Là rimase per un mese. Il 14 luglio la primitiva cassa venne rinchiusa ermeticamente in una seconda cassa di zinco e custodita nella sala della Confraternita del SS. Sacramento, in attesa di essere deposta nel suo sepolcro, a pratiche terminate.

Il trasferimento avvenne dopo un anno e 48 giorni. “Fu messa nel sepolcro – scrive il Lenotti – al centro della chiesa delle Stimmate, la notte del 30 luglio 1854, nella vigilia cioè di quel santo Fondatore di cui ammirava con tanto studio le opere e le virtù, che tanto fedelmente le aveva ricopiate”.

Padre Marani non c’era: era partito per Roma il 23 giugno per cercare di ottenere l’approvazione della Congregazione. Fece ritorno alla Stimmate il 1° novembre, festa di Tutti i Santi. Dopo qualche giorno di riposo, incominciò ad organizzare un ufficio funebre solenne per il Fondatore e fissò la data: il 17 novembre. “Doveva essere – scrive Padre Stofella – il tardo coronamento della memoranda giornata del 30 luglio ultimo scorso, quella che vide la salma del venerato Padre e Maestro riportata quasi in trionfo dalla chiesa matrice della SS. Trinità alla sua propria chiesa delle Stimmate di s. Francesco per essere tumulato al centro. E venne il giorno del grande funerale”.

 

Chi era P. Camillo Cesare Bresciani

 

Era un sacerdote diocesano veronese, colto e molto sensibile verso i poveri e malati, succeduto nel 1828 a don Pietro Leonardi nella direzione dell’Ospedale e del Ricovero. Là viveva in mezzo ai suoi assistiti con un gruppo di sacerdoti e chierici nell’attesa del momento di formare una famiglia religiosa: desiderava introdurre a Verona l’Ordine dei Ministri degli Infermi di s. Camillo. Nel 1836 si era chiuso nel Lazzaretto per assistere i malati di colera.

Nel 1839 vestì l’abito dei Camilliani ed entrò in noviziato a Monferrato. Rientrato a Verona, ottenne nel 1842 il decreto imperiale per iniziare una comunità camilliana a Verona. Ma trovò difficoltà inaspettate dal governo centrale dei Camilliani, perché temevano che la sua impostazione non corrispondesse all’ordine giuridico e alla spiritualità propria dell’Istituto. Poi la cosa fu chiarita e a lui va il merito quasi di una rifondazione dell’Ordine Camilliano.

Alle Stimmate don Cesare era di casa. Non mancava mai alle feste dei Santi Sposi e spesso andava al venerdì ad ascoltare la catechesi di don Gaspare, che “parlava sopra il solito seggiolone e con la predica imbalsamava il cuore”. Tra gli ascoltatori del Bertoni c’erano anche il Vescovo Grasser, il Marchese di Canossa e molte altre persone importanti.

 Nelle angustie dello spirito e nelle difficoltà che incontrava nella realizzazione del suo progetto il Bresciani era incoraggiato dal Bertoni. Egli stesso scrive: “Il Bertoni innaffiò i primi germi della fondazione camilliana veronese con le sue insinuazioni, con l’animarne le primizie, coll’allevarci dei giovinetti alla prima scuola, e trapiantarli nel nostro Istituto”. Fitta la relazione epistolare con il Bragato.

Il Bresciani è uno dei panegiristi delle feste di s. Zeno nel maggio 1839, insieme a don Gaspare. In quella occasione egli recitò il suo panegirico il giorno prima del Bertoni e, la domenica, quando don Gaspare presentò il proprio Panegirico, deve essere rimasto molto colpito, se in questa orazione funebre lo cita e ne parla con tanta ammirazione.

 

L’orazione funebre

 

Siamo grati al Bresciani per averci lasciato questa testimonianza viva del nostro fondatore. Afferma senza mezzi termini che il Bertoni è grande perché è un santo: “La sua gloria è la santità”. Egli sottolinea molto le ricchezze umane, intellettuali e spirituali di don Gaspare; la sua sensibilità e apertura intellettuale; ne descrive sinteticamente la coraggiosa, vasta e silenziosa attività di ricostruzione umana e religiosa dell’ambiente devastato dalla rivoluzione francese e da Napoleone, la sua preparazione eccellente nelle scienze umane e teologiche, il suo impegno nel difendere l’integrità della fede nella comunità cristiana, e la paziente, profonda attività di consigliere spirituale; il suo lento olocausto.

Colpisce il ricordo personale delle visite a don Gaspare nella sua camera, la fila di gente eterogenea che aspetta per incontrarlo, e quella porta aperta giorno e notte, come il suo cuore.

Don Gaspare: “il grande uomo, il dotto, l’innocente, cittadino autentico, onore di Verona, l’uomo di Dio, il solitario Abitatore delle Stimmate, il sacerdote anacoreta,  l’olocausto d’amore…”.

Ne esce un quadro veramente interessante che fa sentire il Bertoni ancora vivo, appassionato, dagli occhi vivi, sorridente, accogliente, sereno.

 

Conclusione

 

Ringrazio P. Nello Dalle Vedove che mi ha invitato a conoscere e a tradurre questa Orazione funebre, che non avevo mai letto per intero. La lingua del Bresciani e lo stile ampolloso non sono di immediata comprensione. Non è stato facile “tradurla” in categorie e in un linguaggio più comprensibile e attuale; alcune frasi le ho adattate, o sintetizzate, o addirittura saltate, perché troppo lontane dal nostro gusto. Tuttavia, nell’insieme, credo di essere stato fedele al testo originale.

Ho aggiunto, alla fine, la catechesi che P. Lenotti ha tenuto nello stesso giorno, venerdì 17 novembre 1854, dove accenna al Bertoni.

Alla fine del lavoro, posso dire che ne è valsa la pena.

 

P. Bruno Facciotti

 Palombaio (Bari), 17 novembre 2004

 

 

 

PREMESSA 

 

      Quando un Uomo di Dio, cioè un santo, porta a compimento il suo pellegrinaggio terreno, completa nello stesso tempo la storia della sua vita che egli ha fedelmente scritto nel libro eterno dei disegni di Dio e nel libro della storia umana conservato nella Chiesa dei Santi. È proprio nel momento in cui lo spirito abbandona il corpo, che per volere di Dio vengono aperti i sigilli di quei due grandi libri e quanto in essi è scritto diventa luminosissimo ed eloquente. Le sue opere virtuose e gloriose si alzano in un coro unanime di lodi e di venerazione, che unisce felicemente terra e cielo. Che cosa canta questo coro? Quale grande avvenimento e ricordo fa rivivere?

 

È morto un santo!

 

      Un anno è già trascorso. Era una domenica pomeriggio e suonavano i primi Vespri della festa del grande taumaturgo, s. Antonio di Padova, quando all’improvviso da questa casa appartata si diffuse dappertutto un pianto. La soave armonia, che rende beato questo luogo e questo cielo, cambiò e la campana con semplici rintocchi a morto informò Verona che il suo don Gaspare Bertoni era spirato.

      All’annuncio di morte tutta la gente della sua città, certamente afflitta, ma di convinzioni cristiane profonde, dall’animo nobile, ispirata, nel suo dolore diceva: “È morto un santo”. L’inno di gloria alla santità immortale prese il posto del compianto per la sua morte. Verona avvertì che don Gaspare le era stato rapito, alzò lo sguardo e se lo vide in cielo.

      La notizia della sua morte – che è normalmente la notizia più dolorosa – non fu seguita da un cupo dubbioso silenzio: “sarà salvo o no?”, né da lamenti di sdegno: “la morte si porta via sempre le persone migliori!”; ma la prima idea, il primo sentimento, il primo giudizio concorde e spontaneo fu: “È morto un santo!”.

      Tutti sanno chi è don Gaspare, tutti ricordano le sue parole piene di sapienza e di unzione divina, la sua figura, la sua virtù. Tutti conservano nel cuore il ricordo di questo sacerdote irreprensibile, vero uomo di Dio.

E prima che la gente di Verona arrivasse alla porta delle Stimmate, alle porte del paradiso c’erano a salutare il loro concittadino i santi e i beati.

      “È morto un santo!”: questo si diceva di lui nelle case dei poveri e nei palazzi dei ricchi, nelle chiese e nelle sedi dei magistrati, nelle stanze del popolo e nella reggia imperiale, nei seminari, in Vaticano e nelle stanze del Papa.

      Mai nessuno in settant’anni ha detto o scritto “una” parola che gettasse ombra sulla vita, sul profondo sapere, sulla fede e sulla incrollabile integrità di questo grande uomo, che dalla nascita alla morte ha saputo conservarsi innocente e senza macchia.

      “È morto un santo!”: questo il riconoscimento unanime della sua santità che il popolo intero di una città fedele gli rende; è un omaggio alle virtù eroiche del suo sacerdote Gaspare Bertoni.

      Chi mai è riuscito a trovare d’accordo le svariate opinioni sulle qualità morali degli uomini che si alzano sopra la mediocrità? Di molti sacerdoti – dei quali si vuole narrare con verità la storia – le pagliuzze sono giudicate come travi agli occhi della gente. In quest’epoca molte persone sono attente e contente di notare i difetti delle istituzioni e delle persone di Chiesa, piuttosto che di scoprire in esse gli esempi luminosi; chi è già morto, poi, non ha né garanzie né difese e non trova certo perdono e pietà nella satira e nelle critiche arbitrarie. Ma al passaggio del feretro, in occasione delle seconde esequie del solitario Abitatore delle Stimmate, un anno dopo la morte, noi abbiamo visto passare e ripassare le spoglie di una persona che fu estranea ai circoli accademici e ad ogni dignità ecclesiastica e che, si può dire, non ha fatto un passo fuori della patria, che non ha cercato relazioni con l’alta società. Eppure don Gaspare ha trattato grandi imprese dello spirito, è entrato continuamente nei labirinti delle coscienze, ha combattuto l’errore, i vizi e le dottrine false in ogni modo con gli scritti, la parola e l’esempio.

      Ebbene, abbiamo visto la sua salma nel feretro, coperto da una semplice stola nera, passare e ripassare in mezzo al popolo accorso in folla e tutti conservavano un silenzio riverente. Non si è sentito un sospetto, un dubbio, un ma, che non dice nulla e tutto suppone e ingigantisce. Il Vescovo, pastore amoroso, nella tenera omelia, lo ha definito “Uomo di Dio” e tutto il popolo lo salutò come un santo: Bertoni è un santo!

      Non posso dunque che parlare della santità del sacerdote Bertoni, perché i Veronesi, tutti e in ogni ambiente, apertamente e chiaramente parlano di questo. Perché parlare d’altro se da questo nucleo posso ricavare l’immensa irradiazione delle sue luminose virtù?

 

La sua gloria è la santità!

 

      Nel linguaggio delle Scritture la parola “santità”, da sola, comprende ogni virtù, ogni eroismo e ogni onore.

      Venerato don Gaspare, il tuo corpo è rimasto senza sepoltura per oltre un anno, rimpianto da molte persone, alla luce, nel silenzio vivo e sacro di un umile chiostro. Per una provvidenziale disposizione d’amore è stato lasciato da Dio sopra la terra e ora finalmente da mani pietose è stato aperto il sepolcro e fatto scendere in esso a ricevere il sonno della pace. Che cosa rispondi alle mie lodi sulla tua santità? So che quando eri in vita, appena sentivi un solo accenno che non rispettasse l’autorità del Sommo Pontefice, ti rattristavi con rammarico. Quando sentivi, anche lontanamente, qualche lode, arrossivi subito per l’umiltà. Dimmi, don Gaspare, ti dispiace se io, semplice ministro di Dio, mostro pubblicamente le tue opere sante? So che tu cercavi sempre di nasconderle e le reputavi un nulla. Nei tuoi occhi e sulle tue labbra si scorgeva un lampo di dispiacere quando qualcuno ti lodava per la tua saggezza, per la tua notorietà e la tua pietà. Dimmi: posso liberamente e tranquillamente proclamare fra queste pareti, che conservano ancora intatto l’eco dei tuoi meriti, le meraviglie della grazia che ti ha santificato? …

      Carissimi figli di don Gaspare, amati da lui con amore di padre, voi mi avete chiamato su questa cattedra per una sincera e devota commemorazione: sono forse, per queste mie parole, diventato meno gradito al vostro fondatore e a voi, per i quali anche solo una parola di quel vostro umile maestro è cosa sacra da conservare?

      No, venerato don Gaspare; no, figli affettuosi e zelanti di questo santo uomo, non abbiatevene a male, né accusatemi di audacia imprudente: non sto disobbedendo alle prescrizioni di Urbano VIII e di Benedetto XIV, alle leggi della Santa Chiesa, se sono affascinato dalle virtù di questo grande uomo.

 

La fama di santità

 

      Il giudizio unanime della mia patria “È morto un santo”, è un bel passo nell’itinerario che porta alla dichiarazione ufficiale della santità, ma non è la parola del Successore di Pietro, non è l’aureola sulla fronte di un Santo già arrivato alla vetta del monte altissimo della santità e della verità. Sarà la Chiesa cattolica, la sapiente e buona Madre, a compiere questo atto; il mio desiderio lo sollecita. Ora, in questo mio scritto mi accingo a schiudere i primi fiori della santità del Bertoni. Innanzitutto, pieno di riverenza e di fede, pongo tutto ai piedi della Chiesa e sottometto ogni fatto meraviglioso e ogni tratto di questo fedele servo di Dio alla infallibile autorità del Sommo Pontefice; allo stesso modo anch’io, povero oratore, mi sottometto totalmente ad essa.

      Chiesa di Cristo, non ti rincresca che io accenni alla memoria di un tuo figlio santo: in questi giorni tu devi piangere per tanti figli che sono usciti di strada ed hanno commesso grandi colpe. Non ti rincresca, anzi ti sia gradito che in questi giorni, in queste ore1, e forse in questo momento in cui tu, dall’alto del cielo di Roma, senza nubi, senza nebbia, senza ombre, tu fai brillare per tutto il mondo nella sua luce originale ed immacolata la Vergine Maria, la stella luminosa di Giacobbe; non ti rincresca che pieno di giubilo io ammiri sorridente il tuo devoto Bertoni. Egli, con il suo ardente desiderio e le sue fervorose preghiere, durante la vita affrettava questo grande giorno e, ora che si trova accanto al beato francescano Leonardo2, esulta in cielo e se lo gode nella comunione dei Santi.
 

Prima parte 

 

Intendo parlare di come la natura abbia guidato nella crescita e nella formazione Gaspare durante l’infanzia; voglio parlare anche della grazia e della benedizione di dolcezza che lo ha prevenuto. È vero che la scienza umana può arrivare a conoscere solo poco di questo mistero, ma alla fede l’accesso è ampio e nella ricerca della verità noi siamo aiutati da una splendida rivelazione. [...]

 

L’infanzia

 

Non temo di affermare che fin dall’inizio Gasparino, il sospirato figlio di Francesco Bertoni e di Brunora Ravelli, sposi onesti e religiosi, cresceva quasi come un angelo. La natura aveva unito corpo e spirito in soave armonia, e il battesimo vi aggiunse la grazia sacramentale e le buone attitudini, che furono irrobustite e custodite nell’innocenza e nella santità e abbellite di carismi e di doni straordinari.

Quando arrivarono gli anni in cui fiorisce la consapevolezza e la ragione, fu bello, per Gasparino, giungere alla prima luce di sviluppo morale dopo un’infanzia vissuta nella semplicità e fra le braccia di Dio. Le sue prime inclinazioni furono unicamente candidi desideri di conoscere l’Autore della vita e della grazia3. Tanto prezioso gli sembrò quel Bene, tanto bello e unico, da meritare il suo amore, e subito si accostò a lui con la preghiera più pura e con l’offerta di tutto se stesso al suo servizio, chiedendo in cambio solo l’amore del suo Dio4.

Non ditemi che è fantasia se questo vi ricorda s. Tommaso e s. Luigi; in verità, le parole del buon Gasparino, il suo raccoglimento, la sua obbedienza e pietà, il candore verginale, il sorriso e lo sguardo e il comportamento erano di un fanciullo santo: i suoi parenti, i domestici, i maestri, lo ritenevano un angioletto. Già la natura, con la grazia divina, era stata generosa con lui nella sua persona e nello spirito: un corpo ben formato, modestamente bello il volto, semplici e aggraziate le sue maniere e una voce che catturava i cuori di chi lo ascoltava.

Ma ebbe in sorte uno spirito ancora più ricco, un’intelligenza brillante e un’acuta capacità di comprensione.

Negl’impegni spirituali e morali era il migliore e superava tutti i suoi coetanei. Sembrava incarnare l’ideale di uomo – secondo la definizione di Cicerone – generoso, versatile, di memoria tenace, acuto, pieno di saggezza e di giudizio; sembrava adatto ad ogni campo di sapere umano e divino.

Per aprirsi il difficile cammino della scienza, superò con grande animo i tre formidabili ostacoli:

– la curiosità superficiale, che egli distrusse seguendo l’insegnamento della prudenza: “Non voler sapere troppo” (cfr Rm 11, 20 vulg.);

– l’orgoglio, che egli vinse seguendo l’insegnamento che porta all’umiltà: “Che cosa possiedi che tu non abbia ricevuto?” (1 Cor 4, 7);

– e vinse infine l’inclinazione frivola del disprezzo di chi ci ha preceduto e della odierna, seducente passione per la novità, per la satira e la derisione:

Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi

         (Sl 1, 1);

Il sapiente indaga la sapienza di tutti gli antichi

         (Sir 39, 1);

“Non lasciatevi sviare da dottrine diverse e peregrine

         (Ebr 13,9).

 

Lucidità mentale

 

Speditamente, libero da ogni capriccio e impedimento giovanile, Gaspare s’incamminò per la sua via e costruì progressivamente la sua personalità. Il risultato: un’intelligenza forte, pronta e libera in ogni ramo di sapere, ma tale che accettava solo verità ben fondate e prive di qualsiasi falso preconcetto.

Sapeva ragionare con equilibrio sulla ricerca delle verità umane e accoglieva con rispetto le misteriose verità divine. Nell’imparare, aborriva assolutamente un’erudizione superficiale e amava soprattutto andare a fondo, per ogni strada, nella ricerca della verità. Conosceva con uguale chiarezza le regole delle lingue e l’etimologia delle parole, come pure conosceva profondamente le teorie e i sistemi della filosofia antica e moderna, del diritto civile e canonico, dei misteri e dei dogmi della Chiesa Cattolica; conosceva bene la geografia, la storia e l’archeologia, e lo studio difficile del cuore umano5.

 

Progresso negli studi

 

Fu per questi suoi inizi, per l’amore alla cultura e alla più solida e vasta conoscenza intellettuale, soprattutto per la sua passione verso la letteratura umanistica, che fu preferito e stimato dai suoi ottimi insegnanti: l’Avesani, il Fortis, il Fracaroli, il Fornaroli, il Bellini, e in matematica lo Zoppi, nelle materie sacre il Galvani6: tutti ottimi insegnanti delle scuole della città e del seminario vescovile.

“Promosso con il massimo dei voti!”: questo l’unico giudizio scolastico e la sola nota che qualificava perfettamente lo studente Bertoni. E non è che a Verona, in quei tempi, mancassero menti elette e che per il Bertoni distinguersi non fosse un grande merito. Il Benaglia, il Monterossi, lo Zamboni, il Sega, il Belloni, il Rivelante7 correvano con lui svelti sull’ardua salita in ogni settore degli studi. Ma Gaspare, arrivato alla loro altezza, li esortava a perseverare nella ricerca del sapere, mentre lui volava verso l’eccellenza. Nessuno provava invidia nei suoi riguardi, anzi tutti lo amavano con rispetto, perché egli non si vantava mai delle sue capacità.

 

La vocazione sacerdotale

 

Il Bertoni trascorreva così gli anni della sua giovinezza immerso negli studi utili e impegnativi, quando la grazia di Dio lo volle per sé. Dio volle per sé i fiori, i frutti, il giardino e il giardiniere stesso: si manifestò nella chiamata al sacerdozio.

Una tale grazia fu come una pioggia provvidenziale: con le prime gocce spense in lui il gusto dei piaceri umani, con le altre lo inondò con l’unzione dello Spirito Santo e con le ultime lo guidò al monte dove si sente chiaro l’invito: Vieni, io manderò te!

Ed entrò nel santuario di Dio, in seminario.

Universale l’approvazione e la gioia in tutta la sua contrada, in famiglia e tra i sacerdoti, e in tutta Verona, che fin da allora vedeva che la mano del Signore era con lui.

Cambiò solo l’abito esteriore. In realtà aveva poco da cambiare nella sua vita. Conservò il suo abito interiore dello Spirito: un abito celestiale, un vestito nuziale. L’innocenza era difesa dal pudore: nel suo giardino sigillato8 non vi entrò mai la passione sensuale né lo spirito di orgoglio. La rettitudine della sua coscienza era così vigile che, per non macchiarla, si teneva costantemente davanti agli occhi la presenza di Dio. Non interrompeva quel suo impegno angelico della mente neppure per strada.

Lo si vedeva guardare il cielo, ora sospirando ora sorridendo; qualche volta, nel rigore dell’inverno, scoprirsi il capo, inchinarsi a terra, e pregare silenziosamente in dolci colloqui come rapito dallo Spirito: “Dio mio, tu sei sempre con me; io con te ho qui, sulla terra, il mio paradiso e tutte le cose”.

Nel suo nuovo stato di seminarista manifestava un’umile docilità ai suoi formatori, così come, da sacerdote, sarà obbediente ai suoi superiori.

Già fin da allora il dotto arciprete di s. Paolo in Campo Marzio, il canonista don Francesco Girardi, lo ammirava come un s. Luigi Gonzaga redivivo; e l’arciprete don Balestra, di santa memoria, don Moschini, catechista carissimo al popolo, e don Galvani, don Conti e don Bigliati, insigni operai nella Chiesa veronese, lo vedevano come sacerdote di grandi speranze. Mi ricordo che la sua fortunata contrada lo considerava come un santo; e i direttori di Esercizi Spirituali ce lo proponevano come modello di vita sacerdotale. 

 

Purezza e sensibilità

 

Nessun discorso o sguardo, nessun cenno o scritto che offendesse il pudore gli uscì mai. Era prudente con le donne, chiudeva gli orecchi se si parlava male di qualcuno, non sparlava mai delle miserie degli altri. Sobrio nel lodare, molto attento nel non immischiarsi negli affari altrui, non tollerava la satira ed era assolutamente contrario alle volgarità e all’adulazione.

Lo si vedeva piangere per le disgrazie del prossimo, inconsolabile nelle sventure della Chiesa.

Amava frequentare sacerdoti santi e, giorno e notte, studiava sui libri dei Maestri di santità. Durante gli studi di Teologia lesse due volte le opere di s. Tommaso; non come un soffio che sfiora e passa, ma come ape che succhia e poi porta a termine dentro di sé il suo lavoro.

Tutto ordine, tutto metodo, tutto saggezza: questo era il suo stile di vita. E come i suoi pensieri erano nitidi e ordinati, così il ritmo delle sue varie occupazioni.

In casa figlio, nelle scuole discepolo diligente, eremita nella sua cameretta, raccolto in chiesa, elegante nel conversare, piacevole, colto, rispettoso, per nulla affettato, di maniere gentili, caro agli uomini e a Dio; uomo di Chiesa, uomo di Dio; sacerdote fedele, secondo il cuore di Dio.

In questo suo correre come un cervo a dissetarsi alle fonti delle virtù del sacerdote e delle scienze dei santi, non si spense mai nel suo cuore l’amore alle lettere umane e alla grande letteratura umanistica; un amore che spontaneamente germogliava in lui. Infatti, l’amore per la bellezza dell’universo e della natura immensa non può mai spegnersi in un’anima che cerca il Creatore nelle sue opere.

 

Natura e grazia

 

Gaspare cercò di comporre ordinatamente natura e grazia. Con fermezza sottomise la natura umana con i suoi limiti alla grazia, che gli apriva orizzonti ben più ampi, infiniti e gli proponeva il libro della scienza dei santi. Pose a fondamento la bontà di cuore, come strumenti di crescita la penitenza e una severa disciplina, e come scopo ultimo della propria ricerca l’immenso, infinito regno dello scibile. [...]

L’arte di unire natura e grazia raggiunse un’ammirabile fusione nell’animo del Bertoni. La sua preghiera, che poi insegnava ai seminaristi e ai sacerdoti, era quella imparata dalla Bibbia. Dice Davide: Insegnami il senno e la saggezza, perché ho fiducia nei tuoi comandamenti9. La bontà del cuore, la disciplina e la sapienza condurranno il suo spirito alle più alte elevazioni e conoscenze naturali e soprannaturali. La sua preghiera era questa: “Dammi, Signore, la bontà del cuore, la disciplina come bastone che mi guidi con fermezza, e acquisterò agevolmente la vera scienza dei tuoi comandamenti”.

 

Un cuore appassionato

 

Il Bertoni possedeva sentimenti così belli, sante passioni e una fiamma così grande d’amore verso Dio e verso l’uomo, che sarebbe stato per lui un martirio di fredda pigrizia restare anche solo un giorno senza atti di amore; un cuore buono, senza doppiezza, simulazione o invidia; un cuore retto, secondo Dio; un cuore che esultava nel sentire cose belle riguardanti la sua patria o la gloria di Dio; un cuore libero da ogni sentimento di egoismo, indulgente verso gli errori degli altri, misericordioso e sollecito verso i sofferenti, gli indigenti, gli affamati, pronto ad aiutare i ragazzi senza istruzione, e si legava a tutte le persone con profondi legami di amore. Ma, dentro a questo cuore, ardevano in un’unica fiamma tre amori: Dio, Gesù Cristo e la Chiesa.

 

Una vita disciplinata

 

Colpisce ancor più sapere che, per ottenere dal cielo il lume della preghiera e della scienza, adoperasse il bastone della disciplina e imponesse al suo corpo la più rigida penitenza. Così è: i santi e gli uomini di mondo, per acquistare la sapienza, vanno per vie opposte; questi prima vanno a divertirsi e cercano distrazioni, e poi si applicano agli studi; i santi, invece, si preparano allo studio, pregando e facendo sacrifici e digiuno. I santi Dottori della Chiesa, nessuno eccettuato, scrivevano trattati profondi e dotte interpretazioni, dopo aver mortificato le passioni e dominato il corpo con la penitenza. Chi vuole la pura scienza dei Santi, evita le soddisfazioni sensibili, per non offuscare nel proprio spirito la luce del Sole divino.

Così faceva anche il Bertoni, che seguiva da vicino questi antichi maestri di santità e sapienza. Da giovane, e anche per molti anni nel corso della sua vita, dormiva direttamente su assi, o su un saccone di paglia; si nutriva di pane e legumi, beveva acqua schietta o mescolata con qualche goccia di vino; non volle mai cibi ricercati, anzi, adoperava ogni astuzia per non accettarli. Per questo, aveva una mente lucida e chiara, e vigorosa nell’apprendere e memorizzare; una voce robusta, occhi attenti, capacità di meditare a lungo; i suoi scritti erano sempre ricchi di dottrina.

 

L’impegno negli studi

 

Sua quotidiana fatica era studiare palinsesti, pergamene di codici antichi e logorati dal tempo, compiere minuziosi esami di manoscritti. Conosceva la Sacra Scrittura a memoria; lesse i commenti acuti di molti esegeti ed interpreti, e li studiò a fondo.

A ventidue anni – come ho già ricordato – aveva già letto due volte la Somma di s. Tommaso e, illuminato dal suo interprete più dotto, aveva mandato nel profondo della memoria le numerosissime questioni, come pure la catena delle verità dogmatiche, morali ed ecclesiastiche. Sapeva richiamare immediatamente i fatti più reconditi, con precisione ricordava le epoche della storia universale; era esperto sulle controversie infinite e sulle polemiche del passato e soprattutto di quelle riguardanti la Chiesa Cattolica e la Santa Sede. Si sentiva rapito in estasi dalla contentezza quando ti spiegava i testi degli eretici, da Ario fino ai moderni sistemi contrari alla religione, te ne scopriva il veleno e opponeva loro le opere degli apologisti: Tertulliano, Bossuet, Du Clot, Bergier, Valsecchi e gli ultimi articoli della Civiltà Cattolica. La sua sete di conoscere le opere in difesa della fede, della ragione, della Chiesa una santa e cattolica non si spense che negli estremi momenti della vita. Si può dire che morì consolato per le vittorie della Chiesa riportate dagli scrittori che si scagliavano coraggiosamente contro tutti gli errori di questo secolo. Come un vecchio guerriero, che sente il fuoco delle battaglie, vede il combattimento e gioisce della vittoria.

 

La cultura umanistica

 

Da quei profondissimi studi sulla fede non separò mai quelli della grande letteratura latina, italiana, francese. Fu scrittore di epigrafi nella sintetica lingua latina, oratore in italiano, e traduttore di rara fedeltà dal francese in italiano. Parlava e scriveva in queste tre lingue con la stessa facilità. E quanto all’arte di oratore, il Bertoni ci ha lasciato un panegirico in lode del nostro vescovo s. Zeno, del quale io non temo di dire quanto lo stesso Bertoni affermava del primo messaggio pastorale del nostro vescovo Mutti: «Quella omelia, da sola, basterebbe a mostrare l’eccellenza della sua mente, la santità del cuore, e come lo spirito dei santi Padri si sia riversato nel suo spirito». Così io, con la stessa sicurezza, affermo: basta quel panegirico a mostrare i meriti del Bertoni. Se lo scrivere è esprimere in parole il proprio pensiero, in questo scritto sapiente si coglie un ordine, una chiarezza, una saggezza, una bellezza, un fluire di pensieri e di sentimenti collegati tra loro da uno stile naturale, non artefatto né ridondante né pomposo. Vi ritrovi la sapienza del Crisostomo, la dialettica di Tertulliano e la purezza della lingua del Cesari.

Non è sempre il numero e l’ampiezza delle opere che dimostra l’ingegno e la scienza di uno scrittore; in alcuni casi, un discorso, un piccolo trattato, una poesia esprimono così luminosamente la ricchezza interiore di una persona da meritargli stima tra i posteri. Così è per il Bertoni.

 


 

Parte seconda 

 

Due amori: Dio e l’uomo

 

La santità di questo uomo di Dio, il Bertoni, mi appare ancora più evidente quando, divenuto sacerdote, dovette affrontare le ardue prove del ministero. Don Gaspare spicca e brilla di virtù così belle, da sembrare un miracolo dei nostri tempi.

In quella bellissima anima la santità incominciò dal pensiero, dalla mente, dove tracciò i sentieri perché gli insegnamenti della sapienza vi giungessero veloci, incontaminati, le fatiche diventassero dolci e piacevole il coraggio per le grandi scelte, e volasse così alla gloria immortale di Dio, Bene perfetto.

Don Gaspare indirizzò al servizio della santità la sua parola e tutte le proprie attività. Fece di sé stesso un olocausto sull’altare dell’amore. Il Bertoni ha amato intensamente, con tutto se stesso. Possono gli studi intensi e la mortificazione continua delle passioni crescere insieme con il più dolce e tenero e bello e caro dei sentimenti, l’amore? Certamente. Dopo aver purificato i primi movimenti del cuore con aspirazioni pure, egli divenne completamente amore.

“Due amori – scrive s. Agostino nel suo sublime libro De Civitate Dei – formarono le due città, la città di Dio (“amore di Dio fino al disprezzo di sé”) e la città di Babilonia (“amore di sé fino al disprezzo di Dio); mentre in don Gaspare si trova un solo amore per le due patrie, la patria terrena e quella del cielo, secondo il comando divino: Ama Dio e ama il prossimo (Mt 22, 37-39). La legge universale, i profeti, la filosofia, la ragione, tutta la ricerca umana sull’armonia di vita, portano ad una conclusione: la conquista di queste due patrie costituisce l’unica e ultima felicità dello scibile umano. […]

Per me è dolce, è un onore affermare che il Bertoni ha riconosciuto e amato, nel senso più puro, queste due patrie. Se della patria terrena il Bertoni parlò poco, e poco risuonava nella sua bocca questa parola – oggi usata assai superficialmente – fu perché il pensiero comune del nostro tempo ne ha stravolto il significato originale. Sono i fatti che danno valore alle cose; perciò sia gloria a don Gaspare, cittadino onesto e autentico, che non adoperò parole vuote, ma compì opere che danno vita alla patria, alla legge, all’immortalità.

Don Gaspare non fu schiavo delle passioni, non si servì delle idee sulla patria per fare i propri interessi e spadroneggiare sugli altri. Non fu schiavo del libertinaggio morale e materiale, dell’avidità insaziabile; ma fu un uomo libero secondo Dio, un uomo che ha bevuto al torrente della via e della patria terrena, per alzare il suo capo (cfr Sal 110,7) fin sopra le stelle e al firmamento dei santi, dove costituì la sua patria, unica e divina. Lo spirito, nato dal cielo, non vuole altra patria se non nel cielo.

L’amore per l’uomo, l’amore per la sua anima, l’amore per il suo vero bene sono un unico amore per un cristiano e un santo. Don Gaspare amò di vero cuore la sua Verona. Fin da giovane la amò come figlio e cittadino. Non la amò solo in vecchiaia, non le riservò solo gli ultimi slanci della vita. Appena ordinato sacerdote volle e realizzò iniziative che altre persone esperte in opere sociali non ebbero neppure il coraggio di tentare.

Tutti conoscono la catastrofe militare, politica e religiosa del 1796. Scoppiò oltre le Alpi, in Francia, e tutta l’Europa fu scossa. Le conseguenze degli sconvolgimenti morali forse non sono ancora cessate. Verona fu invasa dai virus di quell’ampia rivoluzione che scendeva dalle Alpi e si sentì i nervi della pace e della concordia paralizzati come da un colpo mortale. Quante lacrime, quante vittime ha provocato la febbre di quelle idee! Verona lo sa, ma forse non ha ancora scandagliato tutte le perdite nel campo della fede.

Da quelle ombre, fra le rovine di quella catastrofe cittadina, silenzioso, piano piano, uscì un giovane sacerdote, appena ordinato, in abiti poveri, con ancor più povere conoscenze, il quale si propose l’obiettivo di rinnovare dalle radici l’antica fede dei padri e la coscienza di ciò che è retto, buono, giusto, gli studi non nocivi e la morale del Vangelo: era il Bertoni. Il Pellegrini10 e il Cesari11 con i loro scritti facevano tuonare l’ira del Cielo, ma il retto comportamento nella società e il puro genio celeste, come pioggia silenziosa e senza strepito che cade, penetra e non scorre via, usciva dallo spirito del Bertoni e si diffondeva gradatamente nella diocesi di Verona.

Diresse le sue attenzioni a due categorie: i ragazzi e il clero, le piante e i coltivatori.

 

Missione “ragazzi”

 

Ricevuta dal venerando don Girardi, parroco di s. Paolo in Campo Marzio, la cara missione di formare i ragazzi alla fede e alla pietà, con la scintilla del suo spirito accese il fuoco dell’amore nelle Congregazioni Mariane da lui fondate, che presero appunto la Vergine Maria come aiuto, titolare e celeste protettrice. Quella scintilla si accese rapidamente e si diffuse quasi per miracolo nella città e nella campagna veronese; suscitò centinaia di oratòri e santificò migliaia di ragazzi e fanciulle, portò consolazione ai genitori, confortò pastori d’anime e fece spuntare vocazioni sacerdotali e religiose. E siccome era stata soppressa a Verona la Congregazione dei Servi di Maria, la Vergine amorevole suscitò questo suo devoto come un nuovo s. Filippo Benizzi12, perché fosse ravvivata la devozione verso di lei, sua Madre e Signora.

 

Ricostruttore di rovine

 

Si può affermare che in lui si è avverata la profezia di Isaia; cioè, don Gaspare ha saputo conservare la semente della Casa di Dio e ha edificato quanto la sua epoca aveva ridotto a deserto:

 

         “Ricostruiranno le vecchie rovine

         e restaureranno le città desolate” (Is 61, 4).

 

In quei giorni erano soppressi gli Istituti religiosi che vivevano in spirito di penitenza: allora sorse lo spirito del Bertoni, in lui e nei suoi eletti compagni, e la vita di mortificazione e di austerità, sullo stile degli antichi monaci del deserto, rispuntò e nuovamente rifiorì nel convento delle “Stimate” di s. Francesco. Soppressi da più di cinquant’anni i Gesuiti, modelli rimpianti nel campo della formazione dei giovani e delle missioni, don Gaspare conservò la semente di entrambi i settori e restaurò le rovine.

 

La scuola

 

Aprì le scuole con le stesse regole e la disciplina dei Gesuiti, senza aggravio economico per gli studenti e per la città.

Egli stesso fu il primo fondatore e insegnante. Dalla cattedra insegnava con esattezza diverse materie dei vecchi e moderni Corsi di scuola secondaria: letterato molteplice, preside dotto e moderato, esperto nelle lingue classiche, ottimo scrittore, non legato a pedanterie, non manieroso, né freddo né sdolcinato.

Si metteva in piedi alla porta della scuola, lui il più anziano, e diceva: «Entrate, figlioli, e ricordatevi fin dalla soglia che qui dentro abita la scienza; qui, sulla porta, il timore di Dio vigila sulla fede cristiana. Disciplina, compostezza, applicazione, silenzio: niente che sappia di romanzo, di satira o di indecenza. Niente menzogne, opinioni false, che non si addicono a noi. Niente di tutto questo». Così preparava i ragazzi alle lezioni scolastiche ed egli per primo era un esempio luminoso.

Non c’è da meravigliarsi che da là uscissero ottimi alunni, anche se la maggior parte proveniva dalla classe povera del popolo, i quali divennero poi professori, magistrati e sacerdoti, o ricoprirono alte cariche sociali ed ecclesiastiche o entrarono nei chiostri, diffondendo la loro scienza, l’onestà e l’esempio delle loro virtù. Nessuna meraviglia che i suoi discepoli fossero richiesti nei pubblici licei o a dirigere in modo esemplare le società accademiche che allora nascevano dappertutto.

 

Il Bertoni è una stella che ha voluto limitare la sua orbita e la sua influenza sopra la sua Verona. Velato dalla modestia più profonda, voleva - vero saggio e amico della sua patria nativa - risplendere dove nacque e qui morire risplendendo. Possiamo udire nelle parole del suo panegirico in onore di s. Zeno ciò che fece come cittadino: «Io, come infimo, non posso evitare l’incarico di onore che mi avete imposto voi, nei quali onoro la mia patria, a cui devo tutto, la mia erudizione e la mia attività nel ministero della parola. Per tutta la vita mi sono affaticato a restituirvi il frutto del mio piccolo sapere, esortandovi al bene e a comportarvi perfettamente, secondo l’incarico al quale Dio mi ha chiamato. Ora mi è dolce chiudere la mia carriera, servendo e facendo un favore a voi restituendovi il mio affetto e con le lodi del nostro Santo». Così questo santo eremita delle Stimate, brillando maestosamente di una interiore luce di santità, predicava sul pulpito di s. Zeno.

 

Ora vorrei attirare la vostra attenzione e affrettarmi a presentare un aspetto più ampio della ricca personalità di questo grande uomo, il Bertoni: fiume dai molti affluenti ricchi d’acque.

 

“Le Stimate”

 

Che dolce scena di solitudine incontaminata e devota presenta, nella parte di Verona più riscaldata dal sole, questo lieve salir di colle, che gli antichi pini e la chiesa rendono caro alle anime che amano ritirarsi. E in questa chiesa aumenta la devozione, le decorazioni solenni, le artistiche campane e i marmi di ottima fattura.

Qui tutto ti concilia riverenza e amore; all’esterno domina semplicità, all’interno ordine e pulizia perfetta, luce soffusa, atmosfera sacra e serena, silenzio che parla al cuore e dice: «Medita e prega».

Ma c’è una cosa che colpisce ancora di più: la vista del volontario eremita che vi trascorre i suoi giorni.

Voi, che venite da luoghi lontani in questi dintorni, forse in cerca della tomba fatalmente sentimentale e romantica – la tomba di Giulietta e Romeo – rudere senza pregio che spunta appena tra le ortiche e i cardi, smettete di ricercare persone che forse non sono mai esistite o l’essere esistite procura loro misera fama ed eterna infelicità13. Smettete la falsa scena estetica del dolore e soffermatevi a rallegrare la mente con le calde immagini della santità di un uomo ritirato, che renderà famosi questi cipressi, questo piccolo colle, queste vie, questo oratorio.

 

Un ritratto di don Gaspare

 

Appena si entra, sulla soglia della cella vi si presenta allo sguardo in abiti semplici un sacerdote anacoreta, capelli bianchi un po’ trascurati, sorriso spontaneo, portamento tutto benevolo e gentile, che alza modestamente il volto e gli occhi, affabilmente vi viene incontro e vi mette a vostro agio, vi saluta rispettoso, e anziché apparire come padrone della casa, si dichiara vostro servo.

Un’umiltà semplice, un vivo compiacimento di vedervi e mettersi a vostra disposizione, un parlare soave e piano, un incanto di parole e maniere sante.

Vi rapisce immediatamente se avete un animo sensibile; vi anima e incoraggia, se ricercate da lui dei consigli. E se ricoprite una carica pubblica, se siete vescovo, cardinale, capitano, principe o sovrano, voi trovate la persona più umana e rispettosa, perché trovate un santo.

Entrate: la mattina, la sera, la notte la porta è sempre aperta. Appena venite, don Gaspare è tutto per voi, sia che egli si trovi in buona salute, ammalato, o nel dolore.

Potete essere direttori di scuole, di collegi, abati di monasteri; oppure predicatori e legislatori o direttori di spirito, ottimi membri di Curia o di Capitolo, famosi missionari o insigniti delle più alte onorificenze o ruoli pubblici, il pio solitario delle Stimate, dal saccone in cui giace, o per voce o attraverso dettatura, con lume divino, manda nelle Indie e nelle Corti e al Sommo Pontefice la sapienza dei suoi consigli, il profumo della sua santità,  i prelati più irreprensibili. Sembra l’uomo messo da Dio a dare testimonianza della verità: egli è il sant’Antonino14 del nostro tempo.

 

Maestro di sapienza e guida spirituale

 

Innalziamoci ancora più in alto: don Gaspare si avvicina alla più grande opera del divino Maestro.

Insegnare la sapienza è una cosa molto grande; è molto utile mostrarsi alla propria patria come modello di purezza e di giustizia: le nazioni ammirano questi riformatori. Ma don Gaspare non ha ancora manifestato il grado più alto di carità verso la sua patria. Non si ferma qui. Che importano le prediche a un mondo di naufraghi disperati, che ti vedono e ti ascoltano, se non stendi verso di loro la mano per salvarli? Che importa che tu illumini il mondo, se non salvi il mondo? Se ai tuoni e ai lampi non segue la pioggia, che sarà della campagna? E, fuori metafora, se alla parola dei pulpiti non si accompagna l’Io ti assolvo del sacramento, la parola è solo un suono vuoto che percuote l’aria e niente più; la parola cade sulla strada e sulla pietra, se non l’accoglie il terreno soffice del pentimento e della grazia divina che salva. A tutti e due questi ministeri divini si applicò don Gaspare. I suoi ammaestramenti erano luce, la sua predicazione era tuonante e faceva tremare; ma le sue confessioni erano come la pioggia che fa rigermogliare la vita.

Divenuto compagno nella missione popolare di s. Fermo del missionario apostolico romano Pacetti, che aveva molta esperienza nel dare missioni, lo uguagliava nella felicità dell’esposizione, lo superava nell’unzione spirituale e nel condurre chi lo ascoltava a mettere in atto il proposito di cambiare vita. La chiesa di s. Stefano, di s. Fermo Maggiore, di s. Sebastiano, dove don Gaspare ha predicato, e il Seminario vescovile conoscono l’irresistibile forza dei suoi ragionamenti e delle sue convinzioni. [...]

La migliore parte delle persone colte della città e i sacerdoti più saggi e dotti del Seminario andavano ad ascoltarlo: il Pindemonte, il Del Bene, l’Avesani, il Trevisani e il Cesari furono visti attenti ai santi Esercizi spirituali tenuti da lui.

Un grande letterato ebbe a dire che, dopo il Beccalossi e il Sambonifazio, missionari di primo grado, non aveva mai sentito che nessun’altro in quella missione avesse ottenuto frutti di conversione più dolci e salutari.

Eppure quali ingegni illustri, quali nobili oratori onoravano i pulpiti di Verona in quei giorni!

Il Benaglia, con la sua soave e limpida eloquenza, che dopo averlo ascoltato per venticinque anni ti lasciava ancora una sete sempre viva di sentire e goderti le sue catechesi.

Il Venturi, chiaro e popolare nel suo parlare sui pulpiti e nel Seminario, gradito alle persone erudite e caro al popolo che andava ad ascoltarlo, per l’abbondanza di esempi familiari.

Il Sega, dal parlare ragionato e dialettico, serrato, il quale attraverso la mente ti infondeva nel cuore le verità del Vangelo, con le parole condite di sapienza umana.

Antonio Cesari, il maestro della bella eloquenza, una penna d’oro, dallo stile puro, che dal cuore e dalla bocca faceva sgorgare il dettato elegante della bellezza della fede e della piacevole lingua italiana. [...]

 

Una porta sempre aperta

 

Ma torniamo a don Gaspare, che vola sulle tracce delle anime da salvare. Lo abbiamo visto negli ospedali, nelle carceri, con i condannati a morte, in giro per la città al capezzale dei malati; faccia a faccia con i peccatori.

Nelle notti oscure fermatevi alla sua porta che, come quella di s. Ambrogio, è sempre aperta; sì, questa è l’immagine della sua anima, sempre aperta a coloro che cercano la verità, le consolazioni dello spirito e della carità. Vedete entrarvi senza farsi notare e in pianto i delinquenti più grandi, gli increduli, uomini vergognosi che fuggono la luce. Vedete persone disperate per la propria salvezza che cercano gemendo di entrare nella sua camera, e uscirne piangendo lacrime di liberazione, con il cuore pieno di consolazione, di pace, di Dio.

Quanto odio e quante vendette spense don Gaspare! Quanti animi divisi a causa di liti e rivalità riuscì a riconciliare! Quante persone fortemente radicate in dottrine erronee riportò sulla strada giusta! Quanti ecclesiastici rasserenò nei dubbi sulla propria vocazione, negli scrupoli e nelle esaltazioni mentali!

Rimandò rassicurati nei loro conventi molti religiosi indecisi; fece bruciare parecchi libri pericolosissimi; annientò molti quadri osceni; pose fine a usure schifose. Sciolse relazioni immorali e scandalose; sostenne i matrimoni, impedì divorzi, ricongiunse coniugi. Difese le cause dei bambini e non permise mai si toccasse il loro patrimonio; osservò scrupolosamente le leggi della giustizia, volle che fossero restituiti ai loro proprietari perfino uno straccio, un filo di refe, un ago; considerava sante, intoccabili le leggi dello stato, e con l’esempio testimoniò la fedeltà alle sue convinzioni profonde.

 

Una carità sempre disponibile

 

Don Gaspare unisce al suo spirito una famiglia di lavoratori apostolici, ma non tocca i diritti e le ragioni delle loro famiglie; non vuole patrimoni, né stipendi, vestiti o alimenti per i suoi confratelli; nessuna ricompensa per le predicazioni, nessun ristoro né offerte per il ministero sacerdotale. Eppure i suoi figli sono sempre fuori a predicare; ubbidiscono ai cenni dei vescovi, dei parroci, dei rettori, dei sacerdoti, dei collegi, degli oratòri, dei monasteri, dei luoghi pii, delle carceri, tra i condannati a morte. Un filo li sostiene, una voce li chiama: non quella del loro Superiore, ma è la voce dell’amore per la diocesi che comanda a questo grande uomo e alla sua famiglia, la quale, con i fatti più che con le parole, è disponibile al parroco della sua contrada con un’obbedienza gratuita, pronta e cordiale, sempre a sua disposizione in chiesa, per gli ammalati e nelle confessioni. Di più, tutti i parroci, e perfino l’ultimo dei cittadini, possono chiedere disponibilità al capo di questa famiglia e ai suoi figli adottivi. Sono gli stessi Sacerdoti delle Stimmate che concedono giorno e notte questa possibilità.

Che cosa è la carità? Dio stesso, che è amore (cfr 1Gv 4, 8). I fiori rossi, le fiamme del fuoco, il sole non sono che simboli e immagini che parlano ai sensi, ma Dio è l’amore che in realtà crea e genera. Innanzitutto la carità del Bertoni si rivolse a Dio e, manifestando la potenza rigeneratrice della sua origine divina, fece giungere la sua espansione e la sua magnifica effusione fino alle creature più lontane.      

[…]

 

La magnificenza

 

Il Bertoni testimoniò una carità umile e alta, povera e ricca, circoscritta e magnifica, seguendo la guida dello Spirito del Signore, ammirabile nei suoi santi. Le sue idee, che spaziavano nell’ampio orizzonte della scienza e nei sublimi interventi della gloria di Dio, lo portavano anche a compiere opere splendide per magnificenza. Non è una novità nella Chiesa dei Santi trovare unite tra loro la santità con la magnificenza, la misericordia con la verità, la giustizia con la pace. Non solo s. Carlo Borromeo, s. Filippo Neri, il beato Gregorio Barbarigo. Questo è il modo di operare di Dio stesso, come attesta la Sacra Scrittura. Il Bertoni sentiva la sacra magnificenza nel fondo del cuore. Questa si nota nella ricostruzione di questo convento, del nuovo campanile, del concerto armonioso delle campane.

La magnificenza la puoi vedere nella costruzione della casa, delle scuole, dell’atrio, della scala maestosa, degli oratori, dove si compongono armonia e solidità, semplicità e ornato, e una nitidezza rara ed esemplare.

Magnificenza nel donare: don Gaspare non dà solo pane e vestiti ai poveri, ma concede case e conventi, chiostri e terreni da coltivare. […]. Il Bertoni a chi gli chiede una cameretta, dà uno dei monasteri più splendidi della città; a chi gli chiede un rifugio, dà un’abbazia, un convento. Dona e non vuole nemmeno un grazie.

 

Distacco dalle ricchezze

 

A proposito della magnificenza della sua carità, a tutti sono noti quei due fatti memorabili, che fanno onore alla storia di Verona, della stessa attuale civiltà e della beneficenza cristiana.

Il primo episodio: il “sacerdotello delle Stimmate” – così si chiamava per la sua rara modestia e umiltà – inviò ossequioso una lettera al Sommo Pontefice Gregorio XVI, in cui lo supplicava di accettare in dono un latifondo che era stato proprietà di Religiosi, e che egli aveva acquistato e riscattato, affinché il Papa nella sua illuminata sapienza e carità lo destinasse all’utilità della Chiesa.

Il secondo fatto: don Gaspare si presenta spontaneamente nel tribunale civile per firmare una libera rinuncia a una ingente, incontestata eredità, pervenuta da parte di un suo compagno sacerdote15, il quale, a sua insaputa, lo aveva nominato erede nel suo testamento.

Nel primo fatto il Bertoni, come un leale Anania16, metteva il latifondo riscattato nelle mani di Pietro; nel secondo, con un solenne rifiuto, rimaneva ignudo come s. Francesco di Assisi davanti a suo padre.

Non riservava per sé neppure un vestito, una sovvenzione economica, un deposito, un denaro, nemmeno per i momenti di maggiore necessità. Don Gaspare non resta esitante neppure un attimo, non dà retta ad alcun cenno di bramosia dell’oro e della roba e depone ai piedi del successore di s. Pietro, con assoluta padronanza, il convento e le campagne, e ogni suo diritto, il suo spogliamento, il suo cuore. Il Santo Padre si commosse, pianse per l’esemplare distacco da ogni possesso terreno del sacerdote veronese e si dice che esclamasse: “Quis est hic? Laudemus eumNon inveni tantam fidem in Israel! 17; e gli fece rispondere: “Torni a te, giusto e leale Anania di Verona il tuo campo; e se per lo sventurato Anania di Gerusalemme il suo campo era diventato occasione di perdizione perché aveva un cuore ipocrita, per te il tuo campo sarà di salvezza, di speranza per i tuoi compagni, per il clero un esempio da imitare e da emulare, e di più caro ricordo per l’anima mia”. […]

La seconda testimonianza di disinteresse per le ricchezze allettanti è ancora più forte. Diritto in piedi davanti ai magistrati e ai consiglieri comunali, che attraverso il testamento olografo legalmente ineccepibile presentavano al Bertoni una coppa piena d’oro, egli scrisse: “Non accetto l’eredità, non berrò mai a questa coppa”. E presa con una mano la penna e con l’altra il testamento – così ricercato dalla cupidigia degli uomini – si rivolse ai suoi tre amati confratelli, dicendo loro con voce e cuore schietto: “Volete bere il calice che io non ho bevuto?”. Essi gli rivolsero uno sguardo rapido, presero la penna dalla mano del maestro e firmarono col sorriso sul volto e con mano ferma: “Non accetto”. Eppure erano poveri, circondati da parenti poveri; la loro famiglia religiosa non era ancora un Istituto approvato, in cui avessero già posto e affidato con la loro personale libertà il futuro della propria vita. Ciascuno dei tre diceva: “Preferisco bere al calice della povertà che non alla coppa della ricchezza”.

L’antico poeta latino Virgilio ha scritto: “Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames!” (Detestabile fame dell’oro, tu spingi i cuori umani a compiere cose tremende!). Se Virgilio venisse e vedesse questo fatto, dovrebbe scrivere invece che cosa spinge a fare l’amore alla povertà!

Carissimo don Gaspare, vero discepolo del Nazareno, padre di figli così docili, se Dio vi chiama beati, lasciate che anch’io vi chiami allo stesso modo: “Beato l’uomo che non corre dietro all’oro” (Sir 31, 8).

Basta, vedo che questo discorso ferisce la vostra modestia: state tranquilli. Permettete però che fra queste sue mura, le quali mentre era in vita non risuonarono mai delle sue lodi, permettete che io parli e scriva di don Gaspare, la vostra guida, che calpestò sotto i piedi le ricchezze, e che brillò di un esempio così raro. Me lo chiede la riconoscenza di Verona, lo esige il clero, lo desidera la verità e la Chiesa, e oggi lo vorrà lui stesso e lo comanda Dio che è giusto: “Tutta l’assemblea dei santi celebrerà le sue beneficenze” (Sir 31,11).

 

Il calice della passione

 

Ascoltatemi ancora per un po’: voglio parlare della trasformazione del mistico calice amaro del dolore, che don Gaspare bevve fino alle ultime lacrime, quaggiù sulla terra del pianto; ma che ha nuovamente bevuto pieno di santa letizia lassù nella patria del cielo.

Sul suo povero giaciglio, nel suo povero nido, da quattordici anni languiva e soffriva e, si può dire, ogni giorno veniva meno per le angosce mortali e gli sfinimenti. Pieno e traboccante era il suo calice di sofferenze, di penitenze, di abnegazione e di ogni altro patimento, di preghiere e di crocifissione perpetua della sua volontà. Soffriva senza ribellioni, senza illusioni o impazienza. Il suo soffrire era olocausto puro, purificazione continua, improvvise immersioni in Dio, sapienti insegnamenti e sentimenti santi. Bevve il calice ricolmo di vino drogato (Sal 74, 9), fino all’ultimo sorso: fu inebriato della speranza e dell’amore di Dio e gridò: “Berrò il nuovo calice con voi nel regno del Padre mio” (Mt 26, 29), come se volesse dire ai suoi compagni: “Il mio cuore sarà pienamente inebriato quando berrò con voi il calice della gioia”.

 

La morte

 

E giunse l’ora. La morte si avvicinava lentamente, ma riservata e pietosa più del solito. Fatta pura la sua anima nell’onda espiatrice, in cui mille volte si immerse piangendo18, resa forte e leggera per il grande volo con l’Eucaristia, cibo degli Angeli, e con la profumata unzione degli Infermi, si raccolse e si fece piccola, come un uccellino nel suo nido. Quindi, lievemente sospirando e battendo le ali del cuore, lo spirito, sprigionandosi con l’ultimo palpito, placidamente se ne andò. Partendo, lasciò sul volto un dolce sorriso, come la letizia e la calma sul volto del navigante, nel vedersi arrivato al porto e nella propria patria.

Erano da poche ore scomparsi i nuvoloni neri e minacciosi e lontano, a nord di Verona, si vedevano ancora i bagliori dei lampi, e nel cielo della città, sopra un bellissimo arcobaleno, il lungamente desiderato sorriso del volto di Dio. Anche i fenomeni atmosferici servono alla potenza dell’Altissimo che ricompensa i suoi figli, e si inchinano nel loro immenso azzurro al passaggio dell’uomo giusto, don Gaspare. Il cessare della pioggia diluviante era cantico annunciato dai profeti, da dove sembrava uscire la voce del Diletto:

 

         “Alzati, amica mia,

         mia bella, e vieni!

         Perché, ecco,… è cessata la pioggia,

         se n’è andata” (Ct 2, 10-11).

 

Alzati, anima diletta, e vieni dalla collina degli ulivi, vieni dalle macerie delle tue membra, vieni dalla foresta dei tuoi dolori. Vieni, ti aspetta la tua patria eterna e gloriosa. La schiera dei Santi, che a motivo del ministero ardente della tua carità ti hanno preceduto per ricevere la corona, ti aspetta giubilando.

 

Nella gloria

 

L’anima di don Gaspare saliva, bella per l’innocenza e la penitenza, per la scienza e la carità. Subito entrava nel cielo attraverso le porte dorate ed eccola dinanzi al trono di Dio. In quella luce di beatitudine don Gaspare si ferma estasiato, e preso il suo calice tutto splendente – con quali parole non so, ma con quali sentimenti posso indovinarlo certamente da quaggiù – parlava alla Trinità santissima, al Verbo incarnato, alla Vergine Madre, alla Corte celeste, ai quali raccomandava l’anima sua mentre moriva: “Eterno Dio, in Te finisce il mio tempo, da Te oggi comincia la mia eternità. Dalla terra io porto solo questo mio calice, che in Te, per Te e con Te ho bevuto fino in fondo. Alla terra, nella chiesa che mi hai dato, ho lasciato il mio corpo di argilla; a te ritorna il mio spirito. Laggiù Tu sei stato la mia parte di eredità e il mio calice19, qui sei il mio gaudio, il mio paradiso, il mio tutto. Saziami al torrente delle tue delizie senza fine”20.

E stringendo con le due mani il suo calice prezioso e baciandolo ardentemente, continuava: “Quanto è bello questo mio tesoro! Quanto è prezioso il mio calice traboccante!”21. Prendilo, Dio; e se merita qualche grazia ai tuoi occhi, se sono pieno di felicità e saziato di te e della tua gloria – e lo sarò eternamente – , tu con la tua destra divina versane ogni valore, ogni merito, ogni stilla sulla terra dei miei, sui sacerdoti, sulla mia famiglia religiosa, sulla mia città. Versa quest’onda, impreziosita dal tuo sangue, per la pace e il bene della Chiesa e la salvezza del mondo”.

 

Ma chi sono io per esprimere sentimenti angelici con parole inadeguate! Perdonami, mia cara guida, dolce amico, tenerissimo concittadino, perdona.

Ma perché mettere dei limiti alla gratitudine e all’amore che io provo ancora forti per te?

La mia speranza mi fa esclamare con fiducia, al cospetto di questo rispettabile uditorio e di tutta la mia patria: “Dio, tu che sei il Santo, fa’ che questa mia orazione funebre sia una piccola pietra per quell’altare, che io spero, la fedele Verona un giorno vedrà innalzare al nostro santo concittadino. 

 

 

NOTE

 

1 Il Bresciani allude alla proclamazione pubblica del dogma dell’Immacolata Concezione, avvenuta qualche settimana dopo a Roma, il giorno 8 dicembre del 1854.

2 Si tratta del  francescano s. Leonardo da Porto Maurizio († 1751), beatificato il 19 marzo 1796 e canonizzato il 29 giugno 1867. È chiamato il santo della Via Crucis e dell’Immacolata.  Poco prima di morire scrisse una “lettera profetica” in cui preconizzava la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione.

3 Vedi la poesia giovanile: Fu tratto il mio cuor negli anni verdi - dalla voce gentil d’un casto sposo...

4 Preghiera di S. Ignazio, imparata da P.  Fortis: Suscipe, Domine.

5 Cfr. Interessante il confronto con il Panegirico di s. Zeno, dove s. Gaspare sottolinea più o meno le medesime ricchezze intellettuali: “… S. Zeno mostra di conoscere perfettamente le materie teologiche (la Trinità, il cuore dell’uomo, Cristo come via per giungere a Dio, l’Incarnazione, la Vergine Madre, i Sacramenti e le Virtù)… e le più nobili scienze, le Arti umane più belle che formano la cultura più elevata della conoscenza umana. La filosofia, cognizioni di scienza naturale, lumi di erudizione ed eloquenza squisita”.Ms 2104

6 P. Gioacchino Avesani (1741-1818), gesuita veronese, insegnante di lettere alle scuole di s. Sebastiano, poeta e Direttore della Congregazione Mariana.

P. Luigi Fortis (1749-1829), gesuita veronese, insegnante di Umanità a s. Sebastiano, direttore spirituale di Gaspare, coetaneo di Francesco Bertoni, amico di famiglia. Conosceva l’italiano, il latino, l’ebraico, il greco, il francese, lo spagnolo e l’inglese, sapeva di letteratura (scrisse poesie), fisica, filosofia, matematica e musica. Fu eletto primo Superiore generale della ricostituita Compagnia di Gesù.

Don Fornaroli Domenico, insegnate di teologia morale in seminario.

Don Michelangelo Bellini (1744-1812), insegnante di Diritto.

Don Nicola Galvani era nato a S. Ambrogio di Valpolicella nel 1752. Professore di Teologia Morale, e futura guida spirituale di don Gaspare. È considerato il “nonno della Congregazione” per aver lasciato in eredità le Stimmate a don Gaspare. Parroco di s. Giovanni in Foro (Corso Portoni Borsari). Fu il Consigliere spirituale anche di s. Maddalena di Canossa.

7 D. Giovan Paolo Benaglia  di s. Maria in Chiavica. Ordinato sacerdote il 9 marzo, quando il Bertoni ricevette il Suddiaconato. Divenne insegnante al ginnasio comunale, e fu uno dei primi oratori, e promotore di opere benefiche in Verona.

Don Giuseppe Monterossi (1778-1842). Sacerdote nel 1801, fu maestro nelle scuole degli Accoliti, professore di retorica e viceprefetto delle scuole di s. Sebastiano, poeta e letterato distinto, fra i migliori e più santi sacerdoti del suo tempo.

Antonio Zamboni, insegnante di filosofia del Bertoni.

Don Giuseppe Sega (1777-1827), condiscepolo di s. Gaspare. Divenne professore di Filosofia nell’I.R. Liceo e poi Arciprete dei SS. Apostoli.

Don Giuseppe Belloni, compagno di studi di don Gaspare e amico, parroco della Cattedrale e poi Vicario Generale.

Del Rivelante non abbiamo notizie. 

8 Cfr Ct 4,12.

9 Salmo 119 (118), 66.

10 P. Giuseppe Pellegrini (1718-1799), gesuita, letterato e oratore ascoltato e ammirato anche a Vienna da Maria Teresa e dalla sua corte.

11 P. Antonio Cesari (1760-1828) dell’Oratorio, fu sacerdote zelante e letterato. Iniziò il movimento dei puristi, nell’intento di richiamare gli Italiani allo studio e alla imitazione degli antichi scrittori del Trecento. Ebbe molti avversari. Il Bertoni ne seguì sempre l’indirizzo letterario ed ebbe con lui molti contatti. Predicò gli esercizi spirituali in preparazione al suddiaconato di don Gaspare. Era convinto che il sacerdote deve essere anche culturalmente preparatissimo per poter svolgere bene il suo ministero.

12 S. Filippo Benizzi (1233-1285). È considerato il secondo fondatore dei Servi di Maria. A 20 anni era laureato in medicina, ma, ascoltando una voce interiore davanti a una immagine della Madonna, entrò a Montesenario nell’ordine dei Servi di Maria, Ordine dedicato al culto della Vergine Maria e alla pacificazione delle anime. Devotissimo della Madonna.

13 Vicino alle “Stimmate”, nell’Orfanotrofio femminile, a poche centinaia di metri dalla chiesa, i turisti vengono a visitare i resti del cosiddetto sepolcro di Giulietta e Romeo.

14 S. Antonino Pierozzi (1389-1459), arcivescovo di Firenze, famoso come consigliere di importanti personaggi della vita civile ed ecclesiastica: a lui si rivolgevano sia papa Eugenio IV sia il semplice cittadino della sua diocesi. Lo chiamavano “Antoninus consiliorum”.

15  P. Francesco Cartolari.

16  Cfr At. 5, 1ss.

17 “Chi è costui? Lo loderemo (Sir 31,9)… neanche in Israele ho trovato una fede così grande!” (Lc 7,9).

18 Nel sacramento della Penitenza.

19  Cfr Salmo 16,5.

20  Cfr Salmo 36,9.

21  Cfr Salmo 23,5.


 

APPENDICE

 

 

P. Lenotti nella sua Cronaca annota: «Alla solenne celebrazione funebre parteciparono molti Camilliani che assistettero alla messa con i Padri Filippini. Furono distribuiti gli elogi e i ritratti. Nonostante l’inclemenza del tempo venne molta gente. Insomma riuscì molto, con ordine e con decoro. Il testo della Sacra Scrittura commentato in quel venerdì, nella funzione serale “della Buona morte” (ricordo della Passione) fu questo: “Ero un fanciullo di belle doti, avevo avuto in sorte un’anima buona”. Sia benedetto il nome del Signore in tutto».

Presentiamo qui di seguito con alcuni adattamenti stilistici la parte della catechesi, tenuta da P. Lenotti, nel tratto che riguarda il Bertoni. Sono solo pochi cenni, manifestati quasi per caso e con riluttanza, che manifestano l’alta stima che don Gaspare godeva in quel momento nel suo ambiente e la ritrosia che avevano i nostri nel parlare delle proprie virtù. Il testo originale si trova in Coll. Stig., vol. I, 516 ss.

 

 

 

Catechesi biblica

di Padre Giovanni Battista Lenotti

 

Venerdì, 17 novembre 1854

 

 

Ero un fanciullo di belle doti,

avevo avuto in sorte un’anima buona” (Sap 8, 19)

 

… Se gli uomini che possiedono un’intelligenza brillante e un’anima grande e generosa, volgono l’animo al servizio del bene, sono la più bella speranza della società e formano la felicità della patria e del mondo; se invece sventuratamente prendono la strada del male, diventano la rovina e la disperazione della patria.

Gli uomini si dividono in due categorie: alcuni si arruolano sotto la bandiera di satana e usano la loro intelligenza e le altre belle doti di natura per la rovina dei loro fratelli, a danno dei propri concittadini. Sono apostoli di Lucifero. Altri, invece, arruolatisi a fronte alta sotto il vessillo di Gesù Cristo, impiegano le doti eccelse della loro mente e del loro cuore a vantaggio del prossimo.

“Ero un fanciullo di belle doti…” poteva ripetere a buon diritto san Tommaso d’Aquino, san Bonaventura, Duns Scoto, san Francesco di Sales, il card. Bellarmino, il card. Geril1…  Ah! Gli addobbi funebri di questa chiesa, il tumulo, i veli neri, tutto mi porta, anche non volendo, a ricordare fra questi uomini di belle qualità e forniti di un’anima buona anche l’Uomo venerando di cui oggi abbiamo voluto suffragare e onorare la bell’anima: don Gaspare. E come non ricordare colui che per tanti anni, da questo altare, da questa cattedra, offrì l’interpretazione del Libro del Siracide, con tanta profondità, penetrazione, acuta esegesi e con tanta unzione, che venivano sempre ad ascoltarlo personaggi importanti?

Don Gaspare ci prescrisse di spiegare successivamente il Libro di Qoelet e, finito questo, di iniziare l’interpretazione del Libro della Sapienza, che ora abbiamo fra le mani. E chi avrebbe mai detto che dopo tanti anni e tanti venerdì, nei quali interpretiamo ogni settimana per ordine un solo versetto dei Libri Sapienziali, saremmo arrivati, proprio senza saperlo, per divina disposizione, al testo di oggi, che si adatta così bene alla sua persona e giunge a proposito per tessere il suo elogio?

 

Don Gaspare Bertoni

 

“Ero un fanciullo di belle doti…”. Don Gaspare fin da fanciullo fece vedere ai suoi insegnanti quanta fosse l’eccellenza del suo ingegno, il suo animo, la bellezza della sua mente e, quel che è più importante, soprattutto la bontà del suo animo.

Obbediente in modo superlativo ai suoi genitori e ai più anziani; docile, ritirato, modesto, con una certa assennatezza naturale anche quando era bambino, occhi vivacissimi, lieto e di belle maniere, cortese e affabile: fin da allora tutti presagivano di lui grandi cose.

Datosi agli studi, non risparmiò fatiche e tempo per fornirsi di una preparazione straordinaria nelle scienze sacre e profane. Nello studiare e nell’ascoltare le lezioni, anche quando i suoi compagni si stancavano, lui non si stancava mai. Passava la maggior parte della notte nei suoi studi profondi, finalizzando tutto alla salvezza delle anime e al bene della sua patria e della Chiesa. Per questo è riuscito a far tutto quel bene in ogni tipo di opere e di istituzioni che tutti conosciamo.

Beato lui, che seppe impiegare così bene i talenti e la bella indole che Dio gli ha dato. Ora ne gode il premio eterno. Così dovrebbero fare coloro che sono forniti di rare doti! E così anche noi, carissimi, dobbiamo far fruttare il talento, il dono – piccolo o grande – che Dio ci ha donato. Nella parabola dei talenti, voi sapete bene che il servo che ricevette cinque talenti ne guadagnò altri cinque e il Padrone gli disse: “Entra nella gioia del tuo Signore”. Il servo che ne ebbe due, ne guadagnò altri due ed ebbe la stessa paga; ma quello che ne aveva ricevuto uno solo e lo aveva seppellito, si sentì pronunciare in faccia la tremenda sentenza di servo malvagio, e fu gettato fuori nelle tenebre.

Impariamo, fratelli carissimi, a impiegare le grazie e i doni che Dio ci ha dato a gloria sua e per la salvezza dell’anima nostra e di quella degli altri. Impariamo anche noi a trarre profitto dai favori che il Signore ci ha concesso nell’istruire gli ignoranti, o nel correggere i peccatori e tirarli soavemente a conversione, e nell’educare cristianamente i figli, nell’assistere i poveri, nel consolare gli afflitti, nell’adempiere, insomma, i doveri del proprio stato.

Che se non possiamo dire con Salomone e con molti altri: “Ero un fanciullo di belle doti…”, potremmo almeno rispondere con fiducia a Gesù Cristo, nel giorno del giudizio: “Mi hai dato due talenti, ecco ne ho guadagnati altri due”, e sentirci invitati alla gioia eterna del Signore: “Entra nella gioia del tuo Signore”. Se ci fanno paura le nostre miserie, le nostre debolezze, ricorriamo a Gesù Cristo e preghiamo per le sue Sante Piaghe e per il Sangue sparso per noi, che Egli faccia che i suoi doni, ricevuti da Lui, non siano per la nostra condanna ma di premio eterno. Così sia! 

 

 

1 Mons. Geril Giacinto Sigismondo (1718–1802), filosofo, pedagogista, teologo, papabile.